Solennità di Cristo Re Mt 25,31-46

 
 

Il Figlio dell’uomo ci giudicherà sull’amore –

a cura di Mons. Alberto Albertazzi – alberipazzi@gmail.com –

Dopo la digressione giovannea della scorsa domenica nell’intimità dell’ultima cena (parliamo del tempo liturgico ordinario, perché in diocesi si è celebrata la dedicazione della chiesa locale), si conclude l‘anno liturgico tornando a Matteo, che ci squaderna uno scenario grandioso. Non si può leggere questa pagina senza avere in mente il giudizio universale della Cappella Sistina. Matteo si dimostra qui un “grande”, che ha fornito spunto pittorico a un altro “grande”. Quel Cristo schiaffeggiante al centro dell’immane affresco, nella sua nerboruta nudità, ha più del Sansone inferocito che del flaccido Sacro Cuore!

Gesù ha già dato prova di manesca autorevolezza sbaraccando lo sconcio mercato che si svolgeva nel tempio. Poi si è ammansito su battibecchi più o meno insulsi provocati dall’autorità giudaica; racconta ancora un paio di parabole proiettate in avanti verso la resa dei conti; e questa domenica ecco che i conti si fanno. Giudice unico è lui, il Figlio dell’uomo che si insedia nella sua gloria, attorniato da un festoso svolazzare di angeli evocante una visione di Daniele (7,9-10).

Il picco della solennità lo cogliamo in quel regale accomodarsi «sul trono della sua gloria». Anche se di lì a poco Gesù sarà sbeffeggiato in croce, informa in anticipo con chi avranno a che fare i suoi oppositori. E poi un’impressionante globalità planetaria che racimola gente dal tempo e dallo spazio: «Davanti a lui saranno radunati tutti i popoli». Ecco il regno eterno e universale che, dopo la discriminazione tra pecore e capre, potrà drappeggiarsi come «regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace» (prefazio della messa di questa domenica).

Seguono due sentenze giudiziarie, definitive e inappellabili, sintatticamente simmetriche e concettualmente contrapposte, come agli antipodi reciproci stanno benedizione e maledizione: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi». Invito soave e bamboleggiante, come si addice alla proverbiale mitezza delle pecore indifese, anatomicamente prive di attrezzatura d’attacco. E viceversa: «Via, lontano da me maledetti, nel fuoco eterno». Nell’immaginario letterario la fisionomia caprina evoca qualcosa di demoniaco. Questi mammiferi sono attrezzati di corna d’attacco e cozzano tra loro con bellicoso e schioccante ardimento (lo scrivente lo vede perché è parroco anche di Caprile!). Gesù, nel bestiame allora più diffuso, non poteva scegliere animali più adatti a simboleggiare le due fattispecie di umanità, già tradizionalmente contrapposte nei libri sapienziali dell’Antico Testamento (vedi commento al vangelo della scorsa domenica). Il discriminante è Gesù stesso, nel trattamento che ha ricevuto sotto le spoglie di quell’imprecisato personaggio che chiamiamo prossimo, di cui peraltro egli svela la carta d’identità al positivo: «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». E inversamente, spaventosamente, dannatamente, al negativo: «tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me». La conclusione laconica è terribile per un verso e gratificante per un altro: «E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna». L’accento concettuale di questa sentenza sta nell’aggettivo eterno: beatificante e raggelante.

Da questa scenografia sprizza quindi un’altra modalità di presenza di Cristo, che va oltre quella eucaristica, quella della sua parola letta nella liturgia (Costituzione liturgica 7), quella della comunità adunata nel suo nome (Mt 18,20). Gesù, quatto quatto, si rannicchia pure nei bisognosi, che diventano a loro insaputa strumento di benedizione o maledizione.

Pagina dunque a grande effetto scenografico e contenutistico. Sembra prevalervi più la minaccia che la garanzia. Ritornando nella Cappella Sistina, è agghiacciante lo sguardo del “disperato”, sito in basso a destra. Fa sempre bene non perdere di vista il giudizio di Dio, che non ammette ricorsi in appello e cassazione. Il fatto più inquietante è che il codice in base al quale l’umanità sarà giudicata è l’amore verso il prossimo, esercitato in quelle attenzioni catechisticamente chiamate opere di misericordia corporali. Possiamo fare tutte le applicazioni immaginabili ai tempi attuali che offrono innumerevoli occasioni di soccorso a chi si trova nella miseria estrema.

In questo modo avrà termine la vicenda dell’uomo «sotto il sole» (Qo 1,9). E in questo modo termina il mio commento ai vangeli domenicani. Ringrazio il Corriere eusebiano per la cortese ospitalità.

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Siamo noi a ringraziare sentitamente mons. Alberto Albertazzi per la profondità dei contenuti espressi nei suoi commenti al Vangelo nell’anno liturgico appena concluso, con spunti talvolta inediti, per il brio, l’originalità e la ricchezza lessicale, per l’orizzonte culturale che coniuga sapientemente conoscenza biblica e letteraria, filosofica e artistica. Commenti al Vangelo da “collezionare” e pubblicare. Magari nel suo prossimo libro.