V domenica di Pasqua
A cura della Fraternità della Trasfigurazione
Il brano evangelico odierno è costruito intorno all’affermazione iniziale di Gesù: “io sono la vite”. Nella tradizione biblica la vigna è immagine del popolo di Israele ed esprime la relazione che Dio ha con esso. La Scrittura ci descrive così la cura attenta e premurosa del Signore affinché essa porti frutto, ma anche la cocente delusione a cui egli è costantemente sottoposto. Ed ecco che su questo sfondo tradizionale Giovanni inserisce l’affermazione di Gesù: “Io sono”. Il suo Vangelo è costellato di formule come questa, sempre seguite da un predicato e finalizzate a esprimere la sua missione salvifica. In questo caso egli si rivela come colui che, al di là di tutti i precedenti fallimenti di Israele, finalmente realizza pienamente quanto i profeti avevano annunciato, come si evince anche dall’aggettivo “vera” nel senso di autentica, definitiva ed esclusiva. È tuttavia importante notare che Gesù si presenta come “la vite” e non il ceppo, come saremmo forse tentati di pensare; i tralci, quindi, non costituiscono un prolungamento della pianta, ma fanno un tutt’uno con essa. Quest’idea è riconfermata dal versetto successivo dove viene descritta l’attività dell’agricoltore, il quale taglia o pota i tralci in base alla loro capacità di fruttificare; si deve, però, considerare come i tralci – dice Gesù – debbano portare frutto “in me”. Questa breve sottolineatura evidenzia ulteriormente come si tratti di un’unica pianta, di un’unità in cui non è possibile stabilire dove inizia una parte e ne finisce un’altra. Questa profonda comunione è quanto caratterizza l’amore: nell’amicizia profonda, nell’amore sponsale, là dove esiste un’intensa sintonia tra due o più persone talvolta è difficile comprendere a chi appartiene un pensiero o un sentimento, perché la comunione che si è instaurata unisce tutti rendendoli “un cuor solo e un’anima sola” (At 4,32). Il brano di oggi ci invita quindi a vivere pienamente nei confronti del Signore questa partecipazione alla vita dell’altro e l’immagine della vite si presta perfettamente per intuire qualcosa di questa intima relazione. Essa non deve essere scambiata con una fusione, una simbiosi dove l’identità dell’uno ingloba quella dell’altro, come avviene nelle sette, ma è piuttosto la manifestazione di un’intimità talmente intensa, di una partecipazione così profonda al vissuto altrui da superare ogni forma di separazione, benché tutti i membri continuino a mantenere la propria individualità. Tale comunione fornisce anche radici solide e linfa vitale che nutre e fa vivere tutta la pianta. Noi, in quanto tralci, siamo quindi alimentati dall’interno dalla vita e dalla Parola di Gesù, che ci trasforma e ci rende sempre più simili a lui. E un’immagine di trasfigurazione, quindi, quella che Giovanni propone attraverso il simbolo della vite. Sul Tabor Gesù ha manifestato la sua gloria, quell’interiorità luminosa abitata dallo Spirito, linfa nutriente grazie alla quale noi, tralci della vite, possiamo partecipare alla vita divina, una vita intessuta d’Amore. Per mezzo di essa potremo portare frutto, purché rispondiamo all’invito a “rimanere”, verbo che in questa pericope è utilizzato per ben sette volte. Si tratta di un termine che coniuga nello stesso tempo attività e passività; al discepolo, infatti, spetta essere vigilante e, nello stesso tempo, accogliere, aderire, lasciarsi penetrare dall’amore senza porre barriere, ergere difese, al fine di essere trasformato in figlio di Dio.