V domenica di Quaresima

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

Il brano di questa domenica inizia presentando alcuni greci i quali, saliti a Gerusalemme, esprimono il loro desiderio di “vedere Gesù”. Probabilmente non si tratta di una semplice curiosità da parte loro; essi, infatti, per realizzare la loro aspirazione prendono l’iniziativa e contattano l’apostolo Filippo, il quale a sua volta si rivolge ad Andrea; i due, insieme, vanno a parlare con Gesù. Improvvisamente i greci escono di scena, ma la loro iniziativa è per Gesù il segno che la sua ora, l’ora della sua morte e glorificazione, è venuta; una glorificazione che, come si evince dall’uso del verbo al passivo, è opera del Padre. Segue la breve parabola del seme, che non mette in risalto solamente il modo in cui questa glorificazione avverrà – la passione e morte del Figlio dell’uomo – ma ne evidenzia la fecondità. Questa morte, quindi, non deve essere letta come una tragedia senza speranza, ma come un atto generativo che produce frutto in abbondanza. Con questo semplice esempio comprensibile a tutti Gesù rivela il modo in cui si deve vivere l’esistenza, quale sia l’atteggiamento di fondo capace di renderla generativa e fruttuosa. Lo stesso concetto viene ripetuto subito dopo anche se con un linguaggio diverso, non più simbolico ma esplicito. Il morire del seme si traduce per l’uomo nel lasciar andare la vita, nel non aggrapparsi a essa per trattenerla a ogni costo al fine di salvaguardare il proprio Io. Con queste parole Gesù descrive il modo in cui egli è sempre vissuto, il movimento interiore che ha spinto il Verbo di Dio a incarnarsi e la motivazione che sta alla base della sua passione e morte. Nello stesso tempo tali parole enunciano una verità antropologica fondamentale: per crescere l’Io deve superare l’attaccamento a sé stesso e trascendersi nell’incontro con l’altro. Si tratta di una legge inderogabile che la nostra società sembra aver dimenticato e questo spiega, almeno in parte, i drammi e le angosce che ci circondano: più siamo ripiegati su noi stessi alla ricerca di un inafferrabile benessere, maggiori sono le preoccupazioni e l’infelicità. Il discepolo che vuole servire il Signore deve quindi accettare tale norma; essa può costringerlo a seguire la sorte dolorosa del suo Maestro, ma nello stesso tempo lo conduce là dove Gesù è e rimane sempre, vale a dire nella comunione con il Padre. Il Signore stesso è, quindi, il primo a seguire questa legge. L’ora che si sta avvicinando provoca in lui un turbamento, che forse non esprime unicamente l’angoscia che attanaglia ogni uomo davanti alla morte ma evidenzia anche la distanza che intercorre tra di essa e Colui che è la Vita. Per il Gesù giovanneo, tuttavia, l’ora esprime molto di più: essa rappresenta il momento della glorificazione e per tale motivo Gesù domanda al Padre, che subito gli risponde, di glorificare il suo nome. Come dobbiamo intendere tale richiesta noi che a questo termine associamo l’idea di esaltazione secondo criteri puramente umani? La chiave di lettura di questa invocazione si può forse trovare nelle parole ascoltate domenica scorsa: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio” (Gv 3, 16); la gloria di Dio, quindi, non è altro che la manifestazione di questo grande amore che si esprime come dono del Padre e del Figlio nei confronti dell’uomo il quale, di conseguenza, non può non lasciarsi attirare dall’abbondanza di salvezza che dalla croce si riversa su di lui.