V domenica tempo ordinario Mt 5,13-16

 
 

– Gesù, luce che squarcia le tenebre –

a cura di Mons. Alberto Albertazzi –

 

Brevissimo, sapidissimo, luminosissimo frammento di Matteo, questa domenica. È sempre Gesù che parla ai suoi discepoli, dopo avere squillato le stupefacenti beatitudini della scorsa domenica (sono nove, non dieci come avevo scritto per una svista). Definisce oggi i suoi discepoli in quanto tali, facendo ricorso a fruizioni sensoriali: «Voi siete il sale della terra», «voi siete la luce del mondo».

Se si mangia un alimento non salato sembra di assaporare il nulla. Un mondo senza luce è un mondo senza bellezza. Sale e luce sono dunque due veicoli del significato dell’esistere. Senza sale non c’è sapore e non si apprezza ciò che finisce sotto i denti, e senza luce spariscono colori, contorni, profili, immagini. Gesù intende dire che i suoi discepoli danno senso alla coesistenza umana, alla storia, alla società, alla cultura.
Ma nel vangelo di Giovanni (8,12; 12,46) afferma di essere lui la luce del mondo: allora la luce è il maestro o sono i discepoli? La via più facile per uscire dall’alternativa sarebbe parlare di luce propria e di luce aliena, un po’ come stanno in rapporto fra loro il sole e la luna. Ma sarebbe un modo banale per uscire dai pasticci. Diciamo allora che la luce è quella del Vangelo che brilla in chi lo annuncia e in chi lo condivide. Per apprezzare la bellezza della luce occorre mentalizzarsi sui tempi antichi, quando non era facile come oggi procurarsela, e allora la si apprezzava molto di più. Oggi, se non c’è la luce del sole – «lo ministro maggior de la natura» (Dante, Paradiso X 28) – basta premere un tasto e si accende la lampadina. A quei tempi, invece, occorrevano torce e fiaccole, complicate da maneggiare e non senza pericoli. Onde la differenza tra giorno e notte era ben più marcata che non oggi.

La luce era salutata con tale entusiasmo che nella Genesi viene creata prima delle sorgenti luminose che sono il sole, la luna e le stelle, piazzate nel firmamento con notevole ritardo rispetto al loro prodotto naturale che è la luce. Questa sprizza il primo giorno (Gen 1,3); gli astri devono fare un po’ di anticamera e aspettare il quarto giorno (Gen 1,14-19) per cominciare a esistere e fare il loro benefico mestiere. Stupefacente ingenuità narrativa, certamente non sfuggita allo scrittore sacro, ma da lui benevolmente accettata! Era un modo per dire che Dio, in procinto di creazione, ha voluto vederci chiaro, così da poter essere soddisfatto della sua opera, e molto soddisfatto, quando lancia un’occhiata panoramica sul tutto (Gen 1,31): «E Dio vide tutto ciò che aveva fatto ed ecco era cosa molto buona». Insomma la creazione gli è riuscita bene, e ne gongola.
Partendo da questa scintillante luminosità creaturale il passo all’identificazione fra Dio e la luce è breve. Ci pensa Giovanni a farlo, quando annota nella sua prima lettera (1,5): «Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna». Notiamo il puntiglio quasi pedante. Avrebbe potuto limitarsi a dire che Dio è luce e avrebbe detto tutto. Ma per essere ancora più chiaro aggiunge che in lui «non c’è tenebra». Precisazione preziosissima che ci consente di capacitarci dell’invisibilità di Dio. Noi non vediamo la luce, ma le cose illuminate, e le vediamo grazie alla contrapposizione chiaroscurale fra luce e ombre.

La pura luce è invisibile, se non soltanto con occhiali danteschi, nella suprema terzina (più un endecasillabo e mezzo) del canto XXX 38-42: «Noi siamo usciti fore / del maggior corpo al ciel ch’è pura luce: / luce intellettual, piena d’amore; / amor di vero ben, pien di letizia: / letizia che trascende ogne dolzore».
Vediamo dunque che, attraverso queste ampie falcate biblico-dantesche, decollando dalla luce che noi possiamo essere prendendo sul serio il Vangelo, approdiamo alla »luce perpetua” che speriamo per i defunti nella più popolare e nota preghiera funebre, col sottinteso che la speriamo anche per noi quando sarà il nostro momento.