VACANZE E MORTE

 
 

L’accostamento in titolo sembra cervellotico, ma cercherò di giustificarlo ragionando prima di morte, poi di vacanze, poi frullandole insieme.

La morte fa il suo triste mestiere da quando è inventata la nascita.

Per fortuna non ha smesso di farlo, perché se si stancasse il pianeta si riempirebbe talmente di viventi, da doverci pestare i piedi e sgomitarci. La morte dunque non va in vacanza.

L’avvicendamento generazionale consente a tutti di esistere su questo rotolante pianeta. Lo dice anche la Bibbia: «Una generazione se ne va e un’altra ne arriva, ma la terra resta sempre la stessa» (Qoelet 1,4). Bella quest’immagine di madre terra impassibile dinanzi al giocherellare continuo di nascita e morte fra le generazioni che si danno rincorsa. Di questi tempi poco allegri taluni scalmanati danno man forte alla morte militando in quella grottesca degenerazione religiosa che si chiama fondamentalismo.

Altri lo fanno per più o meno solitaria follia. L’uomo è assassino dai tempi di Caino, ma c’era forse qualche motivo di speranza che i tempi moderni, il progresso sociale e civile avessero attenuato la ferocia umana. Invece così non è stato e l’uomo merita di essere etichettato come il più devastante di tutti i mammiferi.

Le vacanze, anche solo nel nome, dicono riposo, serenità, spensieratezza. Chi se le può permettere le progetta meticolosamente, pensando a frescure montane oppure a brasature in spiaggia o a viaggi e crociere. La vacanza ha una sua logica, che è la stessa del riposo settimanale, dilatata al ciclo annuale.

Infondo la vita stessa è una rincorsa verso il riposo: la settimana per la domenica, l’anno per le ferie, la carriera lavorativa per la pensione e la pensione per la morte. Eccoci ancora daccapo per un’altra strada.

Per le vacanze si dovrebbe partire allegramente, ma quest’anno credo che sia alquanto difficile. Troppe tristezze planetarie ci impensieriscono e ci mettono in cuore “una soave volontà di pianto” (Carducci).

Pensiamo alla classica crociera nel mediterraneo. Come si può non pensare che quelle acque vacanziere sono formate per metà di lacrime secolari, a partire dai grandi naufraghi antichi – i vari Ulisse, Enea, san Paolo – per giungere all’alluvione lacrimale dei nostri giorni, che scaraventano sulle nostre coste, se pur ci arrivano vivi, barconate di disperati alla ricerca solo di vita e tranquillità; accolti dagli autoctoni, per bene che vada, con almeno un pizzico di sospetto e diffidenza.

Era un classico anche una visita a città d’arte o comunque turistiche.

Ma in questi orridi tempi la vacanze iniziata allegra può terminare in lacrime e sangue. Basta un forsennato alla guida di un camion per trasformare una passeggiata lungomare in un cimitero. E fatti simili si fanno presto a censire: basta andare a Parigi, Bruxelles, Monaco di Baviera.

I massacratori solitari non massacrano in nome di un’ideologia sballata ma, presumo, per effetto di emulazione mediatica.

Forse se non si desse tanta pubblicità a scelleratezze, ne dovremmo piangere un po’ di meno.Esiste un tranello nelle meningi umane: quello di credere che la morte possa essere solo affare altrui. E’ faticoso pensare che la morte, specie un certo tipo di morte, possa essere anche affare nostro.

La morte l’abbiamo spinta infondo al nostro scenario cerebrale, addirittura cambiandole in nome in goffe attenuazioni a base di “cessare di vivere” oppure “il corpo senza vita” e simili declassamenti mortuari, come se così dicendo il morto di turno si potesse pensare un po’ meno morto.

La morte in vacanza. Espressione molto equivoca. Può voler dire fantasiosamente che la morte si prende le ferie e in quel periodo non muore nessuno.

Ma può anche voler dire che si si può morire durante le vacanze. E perché no? Morale della favola: la morte, “ospite furtiva” (Gozzano) va sempre tenuta presente.

Se questo esercizio mentale fosse costante, saremmo tutti un po’ meno canaglie.

Mons. Alberto Albertazzi