Vercellese si nasce o si diventa
Il discorso tenuto da Padre Enrico Masseroni lo scorso 4 maggio in occasione del conferimento del titolo “Vercellese dell’anno 2012” di cui abbiamo parlato in questo articolo.
Quando ho risposto alla lettera del Presidente Pier Luigi Bruni, che mi comunicava la notizia di questo riconoscimento del “Vercellese dell’anno 2012” , posi a me stesso una domanda: “Quale potesse essere il significato di questa decisione della”famija varsleisa”, e mi sono dato una risposta un po’ salesiana: “Si vede che Vercelli ha capito di essere stata amata e onorata dal suo arcivescovo”. E’ risaputo, infatti, che la vita di ciascuno di noi è una sorta di avventura, scritta un po’ da noi, dalle nostre scelte e un po’ da altri; e per chi crede, la vita è soprattutto una chiamata di Dio. Nessuno di noi sa prevedere la geografia e la storia della propria esperienza umana. Io mi permetto di evocare qualche passaggio del cammino che mi ha portato sino a questa appartenenza affettiva e culturale vercellese. Vorrei condividere con voi alcuni sguardi sul percorso: anzitutto uno sguardo sul tratto “Novara-Mondovì-Vercelli”
1. Da Mondovì a Vercelli
Ero stanchissimo, quando la mezzanotte del 26 settembre 1987 rientravo in seminario dopo la seconda sessione biblica in Palestina con gli studenti di teologia. Avevo appena salutato i genitori in attesa dei figli davanti al seminario. Il viaggio aveva impegnato quasi tutto il giorno: Gerusalemme, Tel-Aviv, Malpensa, Novara. Deposto il bagaglio davanti allo studio, lessi il messaggio scritto su un foglio di quaderno affisso alla porta: “Sei atteso domattina dal Vescovo per le ore 8. Urgente”. Ci risiamo, pensai; si torna ai soliti problemi; dopo la poesia la prosa dei giorni feriali.
Il mattino dopo mi trovavo davanti al Vescovo, Mons Aldo Del Monte, un grande pastore protagonista del Concilio Vaticano II. Il saluto fu originale: “Tu sai che agli amici non si augura l’episcopato. Ma Roma ha bisogno di un vescovo per Mondovì. Adesso vai nella mia cappella, prega e poi ritorna da me”. Dopo un’oretta tornai, e Mons. Del Monte cominciò a dirmi come si fa il vescovo. Dopo quell’incontro uscii un po’ frastornato: con la stanchezza dei giorni passati e con i pensieri piuttosto confusi sul futuro. Il Vescovo mi aveva anche parlato di obbedienza. E così cominciò la noia del telefono. Io aspettavo domande serie dai giornalisti. Ad esempio “ Che cosa significa fare il vescovo di questi tempi?”. Niente di tutto questo: ai media interessava qualche impressione sulla giovane età e cose marginali.
L’8 dicembre, festa dell’Immacolata, ricevetti l’ordinazione episcopale nella cattedrale di Novara; tra i concelebranti c’era anche il carissimo Mons Albino Mensa. Il 13 dicembre entravo a Mondovì, che mi accoglieva in una giornata gelida, imbiancata dalla neve. Dopo otto anni di ministero a Mondovì, venne la seconda sorpresa. Mi trovavo nella sacrestia del santuario della Consolata di Torino; mi avvicinò il cardinal Saldarini e mi pose la domanda: “Andresti volentieri a Vercelli?”. La risposta che mi venne spontanea era scontata: “A Mondovì mi trovo bene e stiamo affrontando una tappa importante per la Granda (la provincia di Cuneo) : il sinodo. A me è stato affidato il coordinamento delle cinque diocesi”. La risposta del Cardinale è stata perentoria: “Se dobbiamo aspettare che i Vescovi finiscano i sinodi, non si governa più la Chiesa”. E così il 24 marzo 1996 entravo nella Chiesa eusebiana. Dopo il saluto del sindaco Bagnasco in Sant’Andrea, preceduto dal Clero, varcai la soglia di questa cattedrale. L’assemblea era composita: c’era gente venuta da Mondovì, dal novarese e naturalmente dal vercellese. Tutto era solenne; immaginabile la ridda dei sentimenti; ma un dettaglio tra gli altri restò nella memoria di molti: all’inizio della celebrazione mi rivolse il saluto il presidente del Capitolo: mons. Rossetti.
Alla fine intervenne anche un giovane di Mondovì per il saluto usando l’espressione: “Carissimo padre Enrico…”. In verità c’era una piccola storia in quella parola: durante un’assemblea nelle prime settimane di Mondovì, un giovane mi pose una domanda: “Come dobbiamo chiamare un vescovo?” . Risposi: “A Novara molta gente chiama il vescovo con il titolo di eccellenza; io ero solito chiamare mons. Del Monte con il nome di padre. Voi fate come volete”. Ma la simpatia per il nome padre, passò anche a Vercelli e divenne prassi, con qualche motivo di stupore.
2 . Come conobbi la” vercellesità”? o meglio il cuore di questa città ?.
Mi viene spontaneo ripensare le parole della prima omelia proposta nella cattedrale di Sant’Eusebio: “Oggi, 24 marzo, V domenica di quaresima, le nostre strade, per un disegno arcano di Dio, si incrociano. E’ risaputo, infatti, che un vescovo non sceglie la propria Chiesa; ma Dio ha chiamato voi e me a condividere questo tratto di cammino, questo scorcio di secolo che volge verso la soglia del terzo millennio”. E così ci trovammo a fare un tratto di strada insieme, senza dare a questa parola “strada” nessuna intenzionalità carrieristica, ma una chiara connotazione di risposta ad una chiamata. E nella prima celebrazione in cattedrale chiesi il dono di amare questa Chiesa e questa città, legate al nome di Eusebio.
Naturalmente l’amore per questa comunità ecclesiale mi ha suggerito un atteggiamento elementare: mettermi in ascolto; ascoltare la gente, i preti, i giovani, le donne e gli uomini che qui operano, ricordando il consiglio di san Bernardino: “Dio ci ha dato due orecchie, e una sola bocca”. Il senso è ovvio: è importante ascoltare”. Ciò mi ha incoraggiato ad avviare subito la prima visita pastorale, parrocchia per parrocchia, già annunciata nella prima celebrazione eucaristica e avviata il 16 febbraio 1997, una domenica di quaresima. La visita pastorale, durata tre anni, ebbe una particolare efficacia per conoscere la diocesi, soprattutto per il metodo adottato. Ad ogni parrocchia dedicai una settimana a partire dalla visita agli ammalati, casa per casa. Questa partenza più volte ricordata, aveva una precisa motivazione: gli ammalati non sono marginali nella comunità cristiana; sono i silenziosi cirenei della speranza che portano la croce dando sovente una testimonianza segreta di fede provata.
E dopo la visita agli ammalati, ogni parrocchia ha messo in programma sette incontri particolari: con i ragazzi delle scuole elementari e medie; con i giovani, con le famiglie, con gli operatori pastorali, membri dei consigli di partecipazione. La visita veniva conclusa con la celebrazione della Messa domenicale, durante la quale consegnavo ad ogni comunità un messaggio pastorale con le indicazioni utili a proseguire il cammino. Mi sembra di poter dire che le visite pastorali ebbero una finalità precisa: l’immersione concreta e talora anche un po’ faticosa nella vercellesità, perché ciò mi ha consentito di toccare con mano i problemi umani, sociali e religiosi del territorio. Ma pure altre esperienze, civili e pastorali, hanno favorito il mio inserimento nei problemi di questa città e di questo territorio, e mi hanno consentito di focalizzare i problemi delle famiglie ancora prima della crisi mondiale. Le accenno brevemente.
Con l’aiuto dell’Ufficio della Pastorale del lavoro, ricordo volentieri i convegni sulla condizione sociale della provincia, la partecipazione alle manifestazioni per la difesa del lavoro, partita dalla stazione e terminata in piazza Cavour. Naturalmente non posso dimenticare la “manifestazione di solidarietà” per l’occupazione nel vercellese tenutasi nel recente 1 maggio, in piazza del Municipio Nella storia della Chiesa eusebiana è diventato poi familiare il cosiddetto settembre pastorale, preceduto dalla stagione dei pellegrinaggi, iniziata all’indomani della festa di sant’Eusebio, del patrono della città e della regione Piemonte. Il settembre pastorale prevede la convocazione delle diverse categorie vocazionali, per riflettere e programmare, focalizzando obiettivi ed esperienze che chiamano in gioco tutte le comunità per il nuovo anno pastorale. Il settembre del 1996 prese la forma concreta di un convegno, che vide la partecipazione di illustri relatori, con un’ ottima corrispondenza da parte della gente (sempre sulle ottocento persone). Il titolo fu trovato stimolante: “Dalla memoria alla profezia”. Si trattava di leggere i segni della tradizione eusebiana, i problemi, le risorse per progettare il futuro di una Chiesa con le sue nuove sfide. Non fu difficile cogliere in questi eventi un’occasione estremamente efficace per mettere a fuoco le luci e le ombre della vercellesità. Mi ha sempre sorpreso il giustificato orgoglio dei vercellesi per la loro storia, per la loro primogenitura tra le Chiese pedemontane, per il proto-vescovo Eusebio, che partì da queste terre per portare il Vangelo nella verde campagna ai piedi delle alpi. Il passaggio dalla memoria alla profezia si concretizzava nella fatica del rinnovamento, che non richiedeva solo la lettura del passato e il discernimento del presente; ma significava accogliere la logica dello spiantare e piantare le tende; fuori di immagine, ciò richiedeva la logica dell’esodo per fare passi nella direzione giusta e nuova.
Una singolare iniziativa per approfondire i tratti della vercellesità venne promossa dal MEIC con i sette lunedì, iniziativa marchiata Vercelli, unica in Piemonte. L’edizione del ‘97, da me caldeggiata, ha inteso approfondire i due volti della cultura vercellese, con le famose due anime: quella urbana e quella rurale.
Il vanto della città è la sua storia; il vanto della campagna è il “mare a quadretti” con il suo riso. Vercelli, come qualche altra città concorrente, rivendica tuttora la prerogativa di capitale d’Europa. Il MEIC con questa scelta tematica, affrontata con il contributo di relatori dotti e preparati, mi ha fatto una sorta di regalo, offrendomi la possibilità di allargare gli orizzonti sulla città delle due culture. Forse l’impatto più impressionante nel solco della tradizione eusebiana fu la processione delle macchine con le rispettive confraternite. Qui, ancora una volta in modo efficace, ho incontrato la gente di Vercelli, tutta riversata sulla strada o in processione attorno ai gruppi scultorei della passione di Gesù. Anche per gli stranieri provenienti soprattutto dal novarese e dal Piemonte non fu difficile cogliere in questa manifestazione del venerdì santo un’immagine di fede fra devozione e folclore, tra preghiera e ascolto, tra parola di Dio e canto. Ciò che maggiormente mi ha sempre colpito in questa singolare manifestazione di fede fu il silenzio della gente, che accompagna ogni macchina e l’onda del “segno di croce” provocato dal passaggio benedicente del Crocifisso.
3. Spunti di metodo pastorale per incidere nella storia
La preoccupazione di fare un po’ di chiarezza sul modo di lavorare nella Chiesa non è una deformazione professionale di matrice cartesiana.
- Nella storia della filosofia, a molti capita di incontrarsi con il padre del pensiero moderno, Cartesio, il quale ci ha messo in testa, più o meno esplicitamente, l’importanza di un metodo. Ricordo l’opera principale del filosofo: Le discurs de la métode ( Il discorso del metodo). Anche la pastorale della comunità ecclesiale pone un’ esigenza di metodo, per annunciare in modo efficace il Vangelo. Il primato, in una comunità cristiana, va dato naturalmente alla testimonianza, come visibile esempio di vita teologale, secondo il Vangelo. Ma è altrettanto importante guardare nella stessa direzione. Nel cammino di una parrocchia e di una diocesi ci sono due percorsi complementari: c’è un cammino che si snoda nel segno dell’anno liturgico, perché il tempo degli uomini non è anonimo, senza senso: l’anno liturgico si srotola dall’avvento alla pentecoste ed è una sorta di scuola della fede, la prima per dare un senso alla vita e alla storia. Ma nel solco dell’anno liturgico c’è pure un percorso che si snoda attorno ad eventi straordinari che scrivono la storia di una Chiesa. Non è vero che una Chiesa vale l’altra. Ogni diocesi ha la sua storia.
Per questo è importante darsi un metodo di lavoro e di servizio, che più volte ho richiamato nei consigli di partecipazione. Diversamente si rischia la perdita di tempo, la presunzione di concretezza che in realtà è approssimazione empirica.
Di questo metodo pastorale vorrei richiamare quattro cardini:
- dalla comunione ecclesiale alla corresponsabilità pastorale, da condividere soprattutto nei consigli di partecipazione con i laici. La Chiesa non è dei preti.
La scansione del cammino è ormi prassi condivisa: prima dell’estate si mette a fuoco la priorità pastorale per l’anno successivo; sul tema, viene approntato da parte del Vescovo uno strumento di lavoro per i diversi incontri di settembre. Lo strumento di lavoro diventa poi Lettera pastorale e programma per l’anno nuovo.
- Il secondo cardine è il passaggio dalla preghiera all’ azione pastorale .
Il mese di agosto con i diversi pellegrinaggi e la novena itinerante nei nove santuari ubicati in nove zone del territorio eusebiano, preparano le scelte concrete del settembre pastorale. Il principio evangelico è chiaro: si passa dalla preghiera al discernimento comunitario del cammino.
- Un terzo cardine della pastorale è il passaggio dal convenire all’andare.
Di qui il concreto dinamismo di una Chiesa: con il suo convenire e il suo andare. Il Vescovo in particolare, da una parte “va” , si rende presente nelle comunità parrocchiali a vario titolo: per la visita pastorale, per le cresime o per altri eventi della vita parrocchiale.
Dall’altra, il Vescovo “chiama”: di qui il convenire della Chiesa, il suo rendersi visibile come “città posta sul monte” (Mt 5,14). Di qui i molti incontri per i giovani, per le famiglie, per i sacerdoti, per le religiose.
- Ed infine il metodo pastorale prevede il passaggio dal servizio di ministero al servizio di magistero.
I vescovi, successori degli apostoli, hanno un mandato preciso: “ammaestrare” e “insegnare” (Mt 28 19,20). I Padri e lo stesso Eusebio ci hanno lasciato la ricchezza della loro testimonianza e del loro magistero. Tale servizio di magistero fa crescere una comune coscienza ecclesiale. Quando il Vescovo scrive, lo fa con amore e per amore, per spezzare un pane saporoso per la gente. Di qui la sapienza pastorale e previdente del sacerdote che spezza quel pane per la sua comunità, soprattutto per i laici più sensibili alla collaborazione ecclesiale.
4. Lo sguardo sugli eventi : “ Ricorda, o Vercelli! “
E’ il titolo di un libro. Forse nelle nostre biblioteche, nella fila dei libri dal dorso colorato, spicca un volume, per ricordare una data straordinaria: il caldo meriggio del 23 maggio 1998, con la storica presenza del papa polacco, Giovanni Paolo II per la beatificazione di un nostro sacerdote, ormai diventato amico di tutti. La generazione convissuta con Don Secondo Pollo, ucciso il 26 dicembre 1941, sulle frontiere della guerra va spegnendosi. Ma il passaggio del Papa a Vercelli è immortalato nella memoria di moltissimi che hanno vissuto quel giorno di luce che viene conservato nel volume “Ricorda o Vercelli”, da sfogliare per evocare emozioni e messaggi.
Mentre era ancora vivo “l’evento Papa”, la Chiesa eusebiana avviò la preparazione dell’anno giubilare, con i pellegrinaggi a Roma e il decollo della missione al popolo con il popolo in tutte le parrocchie del capoluogo, con l’obiettivo primario di rendere più testimoniale il “popolo della domenica”. L’onda lunga della missione, partita in tutte le parrocchie della città, sta ora arrivando alla conclusione dopo aver interessato quasi tutte le parrocchie.
La stessa missione popolare andò ad incrociare la preparazione e la celebrazione straordinaria del Congresso Eucaristico diocesano, la cui ultima edizione era datata nel 1980. Per il Congresso Eucaristico fu di grande incoraggiamento la stessa lettera di papa Benedetto XVI con un messaggio che resta nella storia di un magistero eccezionale per una Chiesa particolare. Il titolo era stimolante: “Chiesa di Vercelli, sii vera comunità eucaristica” (2010).
L’immagine di una Chiesa, popolo in cammino, trova alfine nella cattedrale il suo segno più popolare. Un segno e una realtà dunque: la cattedrale e il popolo di Dio . Segno e realtà esprimevano un’alleanza virtuosa per il rinnovamento. Questa parola divenuta insistente e programmatica nella nostra Chiesa nell’anno della fede, indetto da papa Benedetto, suggerisce la riflessione della Lettera per il nuovo anno pastorale: “Educare alla fede alla scuola di Maria” (2011-2012).
5. Le costanti del nostro cammino e prospettive di futuro
Una Chiesa evangelizzante, in costante tensione per rinnovarsi, non celebra solo eventi straordinari, ma si inalvea nei solchi di una pastorale ordinaria, quella che di solito non fa notizia, ma fa storia. E dicendo attenzione ordinaria o quotidiana della pastorale penso alla promozione e alla crescita di una coscienza ministeriale; di qui la valorizzazione dei carismi della vita consacrata con i suoi appuntamenti annuali. Di qui la promozione dei ministeri laicali destinatari di formazione per un servizio intelligente e generoso nelle nostre comunità. Di qui la preparazione dei candidati al diaconato permanente. La pastorale ordinaria ha comportato la valorizzazione dell’associazionismo cattolico con finalità evangelizzatrici. Alcune associazioni hanno espresso un’azione più consistente: come l’A.C. in uno spazio più popolare all’interno della parrocchia; come il MEIC, in un ambito medio-alto del professionismo vercellese, portando la riflessione su tematiche di grande attualità; come l’OFTAL , operativa nel mondo della sofferenza e dei pellegrinaggi, che vedono la partecipazione del mondo giovanile con quello degli adulti e degli ammalati. La pastorale ordinaria prevede ancora la costante attenzione e presenza sulle frontiere del sud del mondo, soprattutto in Kenya e in Mozambico al fine di promuovere una cultura della missione come servizio del Vangelo, per l’umanizzazione dei poveri. Devo rilevare, non senza motivo di stupore, una costante collaborazione con le Istituzioni civili. Tale collaborazione si è concretizzata nella presenza assidua delle Autorità Civili alle manifestazioni religiose e della Chiesa in quelle civili, senza confusione di ruoli. Ciò ha consentito soprattutto la realizzazione di progetti formativi nella scuola come il meeting sulla droga (1998) e la presenza dei missionari nelle scuole durante l’anno giubilare e il meeting sulla pace. E alfine, nella prospettiva della pastorale ordinaria rientrano pure le tre scelte strategiche: la famiglia, i giovani e le vocazioni; che, da una parte rivelano una particolare problematicità; dall’altra sono cifre di futuro e hanno un’importanza decisiva sul destino della società e della Chiesa negli anni avvenire.
6. Guardando il futuro
C’è un futuro che va profilandosi all’interno delle parrocchie piccole e grandi: il crescente protagonismo dei laici cristiani che da una parte, per la loro vocazione secolare, sono chiamati all’impegno di umanizzare i vari ambiti della società: come la famiglia, la scuola, la cultura, la politica, la comunicazione, la solidarietà accanto ai poveri, ai sofferenti e agli immigrati; e dall’altra, alcuni di essi sono chiamati a svolgere dei servizi importanti nella comunità cristiana.
- C’è poi un futuro che si configura sul territorio attraverso le cosiddette “unità pastorali”, le quali esigono una sapiente sinergia tra parrocchie, superando il secolare campanilismo; la valorizzazione dei carismi personali e non meno il superamento di una pastorale individualistica.
- C’è un futuro che va imponendosi negli oratori, decisivo in ordine alla loro vitalità in un contesto culturale in cui emerge con forza la sfida educativa. Ciò richiede un’oculata formazione di educatori giovani, da motivare e da accompagnare.
- E’ fuori dubbio che soprattutto i cristiani più consapevoli sono chiamati ad essere “seminatori di speranza”, praticando quella virtù che si chiama lungimiranza.
Per questo chiedo di assumere senza deleghe le scelte strategiche: i giovani, la famiglia, le vocazioni, la sfida educativa e la ridisegnazione del territorio.
Chiedo pure, infine, di condividere una pastorale più accogliente, aprendo gli occhi sul fenomeno immigrazione” con le nuove religioni che vanno crescendo anche tra noi e pongono problemi di accoglienza, di dialogo, di ecumenismo e di una cultura della carità solidale.
Ciò che vi ho detto manifesta il modo di leggere i tanti valori della vercellesità ed insieme il modo di operare come pastore in una chiesa che amo profondamente.
Insomma: Vercellesi si nasce o Vercellesi si diventa.
Io lo sono diventato. Il 20 febbraio 2014, avrà termine il mio mandato in questa Chiesa eusebiana. Il papa emerito, Benedetto XVI, ha dissolto in me ogni perplessità e anch’io ho deciso di restare a Vercelli: abitando in seminario e continuando, come Mosè sul monte il ministero della preghiera al servizio della Chiesa. Ogni giorno sarete nel mio cuore e nel cuore di Dio.