VII domenica tempo ordinario Mt 5,38-48

 
 

– La logica dell’Amore –

a cura di Mons. Alberto Albertazzi –

Il discorso della montagna, per rimanere tale, si inerpica sempre di più sino ai picchi vertiginosi svettanti di questa domenica. Gesù rifinisce secondo la sua spiazzante logica il rapporto di dare e avere.
Il vecchio e comodo «occhio per occhio, dente per dente» (cfr Dt 19,21) passa di moda in favore della sberla raddoppiata. Una sola non basta, se arriva bisogna porgere l’altra guancia. Pare ovvio che questo computo di schiaffi non sia da prendersi alla lettera. Una è più che sufficiente. Gesù esagera sapendo di esagerare.

Nel linguaggio corrente l’esagerazione serve per rafforzare il concetto. Il suo è un modo manesco per dire che la sberla in arrivo non dev’essere rispedita al mittente. Il modo più efficace per non proseguire a ceffoni è quello di non replicare appena arriva il primo, diversamente un ceffone tira l’altro.
Gesù non si accontenta di questo, va dritto per la sua strada aggiungendo di non opporsi al malvagio, ma addirittura di assecondarlo nelle sue pretese, mollandogli tunica e mantello. Lezione accolta da Paolo e da lui ribadita in 1 Cor 6,7 in ambito forense. E avanti galoppando su questa logica, che ci fa abbassare la cresta, sino a una rifinitura globalizzante di Levitico 19,18: «Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico».

Nel passo citato si prescrive l’amore verso il prossimo, ma non si dà licenza a tutte lettere di odiare il nemico. Diciamo che, “strizzando” una certa mentalità dell’Antico Testamento, la facoltà di odio forse salta fuori. Ma Gesù giunge a conclusioni così estreme da piazzarsi su un trampolino di lancio verso l’amore del nemico, introdotto – come frequente usanza in questo passo – dall’autorevole clausola «ma io vi dico».
È un «io» gigantesco, che rasenta il divino: chi può modificare Dio, rannicchiato nel passivo teologico («fu detto»), se non Dio stesso? Il discepolo di Gesù dev’essere un illimitato professionista dell’amore, in modo da bagnare il naso a pubblicani e pagani. Ci sono dunque tutte le premesse per la vertiginosa conclusione: «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste». Un’esortazione da prendersi sul serio o una solenne presa in giro?
Né le cose si mettono meglio in Luca che, fedele alle consegne che si è dato, riscrive la norma sotto il profilo della misericordia (6,36). «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro celeste». Quel “come” ci suona insopportabile. Come possiamo noi, gretti omuncoli, professionisti del “perdono ma non dimentico”, misurare la nostra spilorcia remissione con quella di Dio? Ma se Gesù fosse venuto a convalidarci, poteva rimanere dov’era.
Nel precitato libro del Levitico (19,2), riportato in prima lettura odierna, abbiamo una diversa formulazione del principio equativo fra prerogative umane e divine: «Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo» (Lev 19,2).
Il «perché» dichiarativo ci suona più accessibile del «come»  equativo. È chiaro che perfezione, misericordia e santità divine sono incommensurabili con le nostre striminzite. Quel «come» così disturbante va inteso nel senso di “per il motivo che”, in questo modo: “Siate perfetti per il motivo che il Padre vostro celeste è perfetto”. Ossia spingete sulla vostra perfezione umana (= santità, travasandoci dunque in Levitico), come Dio realizza in pieno la sua perfezione divina, in qualunque modo la si voglia chiamare: misericordia o santità o altro.
Termina in questo modo il primo dei tre capitoli (5, 6, 7) del discorso della montagna, di sicuro il più sconvolgente dei tre, che vuole i discepoli “sestogradisti” spirituali.