VIII domenica tempo ordinario Mt 6,24-34

 
 

–  Occupati ma non preoccupati –

a cura di Mons. Alberto Albertazzi –

Due domeniche fa Gesù aveva detto: «Sia il vostro parlare “sì, sì”, “no, no”», dissuadendo da doppiezze, raggiri verbali contorsioni diplomatiche. Questa volta ci dà un esempio del parlar chiaro: «Non potete servire Dio e la ricchezza». Esiste tra le due opzioni una incompatibilità radicale.

Gesù è chiaro anche nella scelta delle parole: dice infatti «servire», da intendersi in senso biografico, ossia non potete dedicare la vostra vita a Dio e ai soldi. Se vengono sciaguratamente valutati alla pari si deraglia dal Vangelo: solo Dio dev’essere amato; il denaro non disturba ma dev’essere usato per quello che vale. In altre parole Gesù rivendica il primato di Dio nella scala dei valori. È lo scatto che è mancato al giovane ricco di Mt 19,22: se ne andò triste perché aveva il cuore diviso tra il conto in banca, dal quale non ce la faceva a staccarsi, e la vita eterna.
Dopo questo enunciato così rigoroso Gesù si lascia andare a un inno alla provvidenza, con primaverili impennate liriche che vezzeggiano i gigli del campo e gli uccelli del cielo, dalla provvidenza garantiti nel loro seppur fragile esistere. Ma prima di questo slancio scocca un liberante imperativo negativo: «Non preoccupatevi». Fa bene a dirlo, perché l’uomo è essenzialmente un mammifero preoccupato. Come non citare a questo punto il “mio” Qoelet (2,23)?: «Tutti i suoi [dell’uomo] giorni non sono che dolori e preoccupazioni penose; il suo cuore non riposa neppure di notte». Spostandomi sul quadrante laico rammento «le secrete / cure che al viver tuo furon tempesta», ricordate dal Foscolo al defunto fratello Giovanni in un soliloquio cimiteriale.

E passando a ricordi meno accademici, rammento la risposta che diede un vescovo mio amico, da poco a riposo per raggiunti limiti di età, alla mia scontata domanda «come te la passi?». Rispose: «Sono occupato ma non preoccupato».  Arguta e riposante paronomasia!
Ma torniamo a noi. In pratica Gesù, questa domenica, ci suggerisce una vita semplice, che si contenta del poco essenziale: la parcitas latina, auspicata dal saggio Lemuel (Pv 30,8): «Non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il mio pezzo di pane». Mi piace sfoderare anche san Pier Damiani (†1072) che ricorda a Dante i suoi tempi di beata solitudo: «Quivi / al servigio di Dio mi fe’ sì fermo, / che pur con cibi di liquor d’ulivi / lievemente passava caldi e geli, /contento ne’ pensier contemplativi» (Paradiso XXI 114-117). Insomma il possesso di poco libera la mente dalle preoccupazione e ne agevola il decollo verso Dio. La ricerca del regno di Dio per il discepolo dev’essere prioritaria. Tutte le altre cose sono accessori, concessi dal Padre celeste al quale non sfugge che ne abbiamo bisogno.
Non solo poesia dunque in questo passo evangelico ma anche concretezza esistenziale, rafforzata da un ragionamento a fortiori fatto poco prima: «Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede?». Il bello è che questa solerzia divina nei nostri confronti è garantita, benché bollati di fede rachitica. Ma, per fortuna nostra, altrove (Lc 17,6) Gesù afferma che un granello di fede basta per trapiantare gli alberi in automatico.
La pagina termina con un rinnovato invito a non preoccuparci, andando avanti giorno dopo giorno, perché a ogni giorno basta la sua pena; ed è ansiogeno ingolfare il nostro tempo accumulando preoccupazione su preoccupazione. Indimenticabile al riguardo il giocondo ritornello di Lorenzo il Magnifico nel suo Trionfo di Bacco e Arianna: «Chi vuol esser lieto sia, di doman non v’è certezza». Oppure il più serioso «carpe diem quam minimum credula postero» (= cogli la giornata, non credere al domani, Odi I,11) di Orazio.  Non raramente la sapienza evangelica e il buon senso laico parlano all’unisono. Ed entrambi ci riescono più simpatici.