Voragini salmodiche

 
 

a cura di Mons. Alberto Albertazzi

alberipazzi@gmail.com

Il coronavirus, su cui farnetico in altro foglio, non ci impedisce da cavalcare mensilmente i salmi. Questa volta prendiamo un salmo famosissimo: il numero 129, De profundis . E’ un classico della liturgia funebre, forse la preghiera mortuaria più popolare dopo L’eterno riposo . Suppongo che non pochi vetusti par mio la sappiano ancora farfugliare in latino! E’ classificato letterariamente fra i cantici delle ascensioni, mi pare di averne già parlato. Erano quei salmi (119-130) che venivano cantati dagli ebrei quando salivano, per l’appunto, a Gerusalemme per le feste di pellegrinaggio. E spiritualmente è membro ragguardevole dei salmi penitenziali in compagnia dei numeri 6, 31, 37, 50, 101, 142.

Anche se è un salmo da funerale è peraltro assai versatile, perché ricorre pure ai Vepri di Natale, che è esattamente l’anti-funerale! E’ accalappiato dal Natale a motivo dell’ultimo versetto:

Egli [Dio] redimerà Israele
da tutte le sue colpe.

Di queste parole si impossessa l’ignoto angelo quando reca l’annuncio a Giuseppe (Matteo 1,21). E’ dunque redento non soltanto Israele ma anche il salmo stesso, che si sposta dal 2 novembre al 25 dicembre! Per vero dire questo versetto terminale lega poco col registro tonale del salmo, che inizia da caverne cupe e tenebrose. Basta citare il primo versetto:

Dal profondo a te grido, Signore;
Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti
alla voce della mia supplica.

Ci sentiamo un lamento straziato e straziante, che si va tuttavia progressivamente schiarendo verso luminosa speranza nelle successive, brevi falcate letterarie. E’ un salmo individuale, l’orante lo si sente rannicchiato in se stesso, senza guardarsi attorno, in una solitudine angosciosa e supplice ma, orientandosi gradatamente su Israele, ne chiede il perdono di una interminabile clonazione di peccato.

E’ possibile, se non probabile, che il versetto terminale coinvolgente Israele, sia stato aggiunto successivamente da mano ignota per legittimarne l’uso liturgico nel tempio di Gerusalemme. Il salmo è piaciuto, ma è apparso troppo individualistico per una liturgia di popolo. Allora è stato divaricato da mano successiva con lo spalancamento terminale su Israele. Lo stesso arrangiamento si riscontra pure in altri salmi (24, 40, 50, 125, 130 …).

Da quale profondo grida il salmista? Da una profondità geografica come potrebbe essere Gerico (-390 m) rispetto a Gerusalemme (+ 760 m)? Non dimentichiamo che si tratta di un cantico delle ascensioni, che potevano svolgersi fra le due citate città. L’ipotesi sembra un po’ banalotta. Oppure da una cavernosa profondità canora – stiamo parlando di un cantico – come quella del Grande Inquisitore nel Don Carlos di Verdi? Oppure, ben più probabilmente, da una profondità interiore, nella quale sprofonda anche il salmo 63,8 con l’annotazione “ l’intimo dell’uomo e il suo cuore: un abisso! ”. Se così è, viene in mente un’abissale interiorità che consente di sintonizzarsi su Dio.

L’abisso nella Bibbia è tematizzato sin dall’inizio in parole che tutti sappiamo a memoria: “ In principio Dio creò il cielo e la terra . La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso ” (Genesi 1,1-2). Quale abisso? L’abisso del nulla? L’abisso dell’inesistente? Non facciamoci domande, assaporiamo l’ermetismo di questa formulazione. Aggiungo solo che nell’originale ebraico “abisso” risuona in una parola sovranamente cupa e cavernosa, non trascrivibile nel nostro alfabeto.

Anche nel salmo 41,8 abbiamo un ermetico richiamo abissale: “ Un abisso chiama l’abisso / al fragore delle tue cascate; / tutti i tuoi flutti e le tue onde / sopra di me sono passati ”. Immagine fascinosa, di fragorosa, abissale bellezza, dinanzi alla quale non c’è che da ammutolire.

E aggiungiamo una legione di satanelli che supplica Gesù che non li scaraventi nell’abisso (Luca 8,31). Ma usciamo ora da questi abissi insondabili e ritorniamo al nostro salmo.

Se Dio si mette a centellinare le colpe umane siamo tutti perduti:

Se consideri le colpe, Signore,
Signore, chi ti può resistere?

Ecco perché questo salmo ha avuto successo funebre: dopo la morte c’è la resa dei conti, il conguaglio fra benemerenze e malefatte! Ma subito c’è una risalita verso la speranza, introdotta con un “ma” vigorosamente avversativo:

Ma con te è il perdono:
così avremo il tuo timore.

Certezza di perdono dunque, di cui non bisogna abusare, ma da accogliersi con almeno un blando fremito di timore, che si travasa in una replicata speranza:

Io spero, Signore.
Spera l’anima mia,
attendo la tua parola.

Parola di accogliente assoluzione. Notiamo questo curioso e piacevole sdoppiamento di personalità: in prima battuta sono io che spero; in seconda è l’anima mia. E’ un valido espediente letterario per significare la forza della speranza che non delude, come precisa puntigliosamente san Paolo nella Lettera ai Romani (5,5). E si arriva così ai primi bagliori aurorali:

L’anima mia attende il Signore
più che le sentinelle l’aurora,

della quale sono in attesa per concludere il loro noiosissimo, insonne turno di guardia che le ha tenute in piedi tutta notte. A questo punto comincia a emergere Israele, invitato lui pure ad attendere il Signore come le sentinelle l’aurora. Il salmista desidera estendere all’intero suo popolo quel sublime stato d’animo, che rannoda mistica e poesia. Questa attesa fiduciosa è vittoriosamente giustificata:

perché con il Signore è la misericordia
e grande è con lui la redenzione.

Quindi niente paura: “Tutto andrà bene”, se vogliamo trascinare negli sfioramenti interiori di questo salmo i garantisti, sbraitati proclami da coronavirus. E si conclude con l’ultimo versetto che abbiamo trapanato all’inizio di questa chiacchierata.

De profundis. Chissà perché nel nostro immaginario la profondità è pensata dantescamente cupa. E sì che, se mi affaccio al terrazzo della Capanna Margherita (m. 4559) sul Monte Rosa, vedo sotto di me abissi di scintillante luminosità. Si tratta forse di un tenebroso inconscio dantesco (1) che circola in noi, non senza sfumature mefistofeliche (2). Non arriviamo fino a questo punto! Preferisco appigliarmi a Montale, citando questa sua delicatissima strofa serale: “ E il vento che nasce e muore / nell’ora che lenta s’annera / suonasse te pure stasera / cordato strumento , cuore” (3) . Non è necessario pensare all’inferno – anche se facciamo bene a non perderlo di vista – per immaginare l’intimo sprofondamento di inizio del salmo ora esaminato. Alla lettera recita non “dal profondo” ma “dalle profondità”. E’ un plurale maggiorativo che vuole dare risalto agli spazi sconfinati del cuore umano, troppo spesso “scordato” – come lo dice Montale – ma che può intonarsi nella misura in cui allinea il suo pensare a quello di Dio.

Questo salmo, di bellezza sovrana e sovrumana, è una “quiete dopo la tempesta” o – meno leopardianamente – un transito progressivo, velocemente cadenzato, dalla tenebra alla luce; significando con allusioni neppur troppo velate che la tenebra è nell’uomo, mentre la luce è in Dio: anzi la luce è Lui (cfr prima Lettera di Giovanni 1,5).

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1Cfr DANTE Purgatorio XVI 1-3.
2 A. BOITO Il Mefistofele. In quest’opera Satanasso canta: “Son figliuol della tenebra/ che tenebra tornerà”.
3 E. MONTALE Corno inglese in Ossi di seppia.