X domenica del Tempo ordinario

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

Molto si potrebbe dire oggi a proposito della prima lettura; mi limiterò, tuttavia, a evidenziare un aspetto che ritroveremo nel Vangelo. Subito dopo il peccato, Adamo si nasconde. Come lui, anche noi facciamo fatica a riconoscere i nostri limiti e le nostre colpe; preferiamo invece mascherarli e accusare gli altri attribuendo loro le nostre mancanze, proprio come fecero i nostri progenitori. Ritroviamo questo stesso atteggiamento nel brano di Marco che oggi la liturgia ci propone. Di fronte al mistero di Gesù, al confronto con la sua parola che affascina ma allo stesso tempo interpella e mette in crisi, sia i suoi familiari sia gli scribi, invece di lasciarsi interrogare da quanto egli dice, preferiscono ricorrere alle accuse: “È fuori di sé”, “… è posseduto da Beelzebùl”; accuse ingiuste e pesantissime, frutto di un cuore indurito e chiuso all’amore. Anch’essi, come Adamo, preferiscono non riconoscere il loro male – la paura della critica da parte della famiglia, la gelosia e l’invidia degli scribi – ed espellerlo fuori di sé attribuendolo a qualcun altro, in questo caso a Gesù. Il modo in cui egli reagisce merita la massima attenzione perché si colloca proprio sul versante opposto rispetto alla risposta di Adamo: egli non si nasconde, non si difende e non accusa ma, da vero maestro, pone una domanda che offre la possibilità di cogliere le incongruenze presenti nel loro pensiero. Mentre confuta la verità dei loro ragionamenti e ne mette in risalto l’irrazionalità, Gesù sottolinea contemporaneamente una profonda verità: un regno diviso in sé stesso va in rovina, è destinato a finire. Questo è vero anche per il nostro mondo interiore, sempre sollecitato da spinte e desideri contrastanti, che può trovare la pace e “restare in piedi” solo grazie a processi di unificazione in cui il valore più significativo dell’esistenza, che per il cristiano è l’amore, guida e orienta i pensieri, il sentire, le scelte. L’alternativa è la divisione interiore, il lasciarsi attirare da aspirazioni opposte e discordanti, che creano dispersione, confusione e instabilità, impedendo di “restare in piedi”. Subito dopo Gesù mette in guardia rispetto alle estreme e drammatiche conseguenze a cui si può giungere cercando di camuffare la realtà, attribuendo colpe e responsabilità agli altri pur di proteggere sé stessi. Tale atteggiamento è da lui definito come “bestemmia contro lo Spirito Santo”. In che cosa consiste questo peccato così grave da non poter essere “perdonato in eterno”? Perché non ci sia perdono ci vuole volontà, intenzionalità, determinazione e ciò può avvenire solo se l’uomo accetta consapevolmente, deliberatamente di assumere lo stesso atteggiamento degli scribi: non riconoscere i segni e l’azione dello Spirito che opera il bene, preferire il rimanere nella propria cecità pur di non accettare la presenza dell’amore e la sua azione. La terza scena è diversa rispetto a quelle precedenti più drammatiche; essa dilata il nostro orizzonte aprendolo su una stupenda possibilità che ci viene offerta: diventare familiari di Gesù. Non sono, infatti, i legami carnali ad avvicinarci al Signore, ma lo è il comune intento di compiere la volontà di Dio. Nulla, dunque, ci priva della vicinanza e familiarità con lui, purché ne condividiamo il desiderio più profondo, il motivo per cui è venuto sulla terra (cf Eb 10,7): fare la volontà del Padre, partecipare attivamente al dono della salvezza offerta a tutti gli uomini.