XIII domenica del Tempo ordinario

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

Per ben tre volte nel Vangelo odierno Gesù ci pone di fronte a delle situazioni dove l’apostolo può scoprirsi “non degno” di Lui. Come interpretare questa espressione che, se presa alla lettera, potrebbe farci sentire non all’altezza di una chiamata che, tuttavia, il Signore ci propone? Per rendere più accessibile l’affermazione di Gesù è forse utile interpretarla in senso relazionale. Per entrare in un rapporto di profonda intimità con Lui sono infatti indispensabili alcuni requisiti: il primo riguarda le nostre relazioni. Gesù non chiede di non amare i genitori o i figli, ma di evitare ogni tipo di attaccamento, ogni atteggiamento possessivo così intenso da non renderci liberi e non lasciare spazio per altro. Ciò che comunemente chiamiamo amore conosce modi diversi di esprimersi: è amore quello del padre che rischia di perdere la vita per salvare il figlio, ma anche quello della madre che tende a trattenere il figlio e a impedirgli di essere autonomo. Per meritare questo nome, l’amore ha bisogno di essere ordinato, armonizzato e, di conseguenza, necessita di una gerarchia in cui il bene per Gesù ci orienti verso quel giusto distacco da noi stessi capace di purificarci per amar con cuore veramente libero. Non si tratta dunque di una questione di preferenze – Gesù oppure un familiare – ma di aprirsi a ciò che veramente merita il nome di amore: il dono di noi stessi all’altro, la carità che lo Spirito fa crescere e alimenta in noi. Questa lettura ci aiuta a interpretare anche la terza indicazione, relativa al prendere la croce, da intendere come invito ad assumere radicalmente la sequela, disposti a tutto pur di andare dietro al Maestro e metterlo al primo posto nella vita.
La frase successiva può essere interpretata come una conseguenza di quelle precedenti, ma anche come una sintesi del Vangelo stesso che esprime una legge fondamentale dell’esistenza: la necessità di scegliere tra trovare e perdere la vita, tra il desiderio di tenere per noi quanto offre l’illusione di percepirci eterni e onnipotenti e la disponibilità a lasciar andare quanto ci fa sentire vivi perché non vogliamo possedere nulla avidamente per noi stessi, ma desideriamo condividere tutto. Naturalmente tale atteggiamento non può essere fine a se stesso ma deve avere un motivo, come suggerisce Gesù quando dice “per causa mia”. Si tratta, infatti, di perdere la vita per Lui che sa offrirci in cambio quella vera: la vita piena ed eterna, quella vita che Egli è venuto a portare e in cui è lo Spirito Santo e non l’egoismo a orientare il nostro cammino.
L’ultima parte del Vangelo propone il tema dell’accoglienza che si può declinare in modi diversi ma comporta sempre la disponibilità a decentrarsi, a far spazio dentro di sé per essere pronti a recepire quanto viene offerto dall’esterno. Nel suo primo significato “accogliere” comporta l’apertura all’ascolto e alla ricezione del messaggio degli apostoli la cui origine è però altrove, in Gesù e nel Padre. L’accoglienza comporta quindi l’andare al di là degli eventuali limiti personali del missionario per aderire a una Parola che non è sua ma del Cristo.
Accogliere significa anche ospitare i piccoli, i profeti, i giusti, coloro che il Maestro invia perché il suo messaggio si diffonda e verso i quali ha un’attenzione così grande che persino il gesto apparentemente più insignificante, quale l’offrire un bicchier d’acqua, proprio perché rivolto a loro assume un valore unico.