XIV domenica del Tempo ordinario

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

La pericope odierna descrive un momento doloroso del ministero di Gesù. Dopo una serie di episodi in cui molti si erano accostati a lui con estrema fiducia, oggi, proprio nella sua patria dove è ritornato, egli incontra il rifiuto. Gesù insegna nella sinagoga di Nazareth e in coloro che lo ascoltano le sue parole suscitano una duplice reazione: una a carattere emotivo – lo stupore per il suo insegnamento -, l’altra di ordine più intellettuale; nasce, infatti, spontaneamente nei suoi compaesani la domanda rispetto alla sua sapienza.  Come tutti noi essi hanno bisogno di interrogarsi, di interpretare, di capire come spiegare un fenomeno così strano e insolito. Noi che ascoltiamo, se non chiudiamo il cuore alla fede, sappiamo che quel “da dove gli vengono queste cose” non può che riferirsi alle profondità di Dio da cui il Verbo attinge la sua divina sapienza. Per i concittadini di Gesù la domanda rimane aperta e la risposta dipenderà dalle maggiori o minori resistenze interiori. Non si tratta, infatti, di una questione intellettuale; per riconoscere in Gesù il maestro e il profeta non sono necessarie una vasta cultura o una profonda sapienza umana: basta osservare i fatti straordinari che i nazaretani non possono non ammettere; essi parlano, infatti, di “prodigi”. Eppure subito dopo l’evangelista Marco ci dirà che “era per loro motivo di scandalo”. Come spiegare questo passaggio repentino dalla meraviglia e dalla consapevolezza allo sconcerto? La motivazione che i compaesani di Gesù adducono riguarda il carattere familiare e ordinario della sua persona. Si tratta di qualcuno che fino a poco tempo prima ha esercitato un’attività molto normale, ha vissuto in mezzo a loro e di cui conoscono i familiari. Per il lettore è tuttavia evidente che ci troviamo di fronte a una giustificazione, a ciò che la psicologia ci ha insegnato a considerare come un meccanismo di difesa.  Che cosa può quindi nascondersi dietro a tali parole? Possiamo pensare innanzitutto a una falsa idea di Dio. Se è profeta chi è chiamato a rivelare i pensieri di Dio e a parlare in suo nome, egli non potrà che manifestarsi nella semplicità, nella piccolezza, nell’ordinarietà. Maria, che nel suo Magnificat proclama: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili” (Lc 1,52) lo ha capito, così come lo avevano compreso Giuseppe, i pastori e i Magi venuti da lontano. I compaesani di Gesù, invece, hanno un’idea diversa di Dio, un Dio la cui potenza riflette le aspirazioni grandiose del cuore umano, un cuore chiuso non solo alle misteriose vie divine ma anche al riconoscimento dell’altro, in questo caso di Gesù. Qualcosa impedisce al loro cuore di aprirsi allo straordinario e trasformare lo stupore in gratitudine e gioia. Essi, invece, si scandalizzano forse per invidia, rivalità o pregiudizio, come suggerisce l’espressione  “il figlio di Maria”, possibile residuo dei pettegolezzi sorti al momento della sua nascita. La risposta di Gesù è, come sempre, regale. Egli non si arrabbia, non si vendica, non dà alcuna prova della sua superiorità, ma constata semplicemente un dato di fatto: il disprezzo dei profeti viene sempre da coloro che gli sono vicini. Le conseguenze di tale atteggiamento sono tuttavia drammatiche e riguardano anche noi; esse ci invitano a vigilare, poiché la durezza di cuore, la sua chiusura, oggi come allora, impedisce alla grazia di Dio di passare, blocca il suo dono d’amore “per la vita del mondo” (Gv 6,51).