XIV domenica tempo ordinario Mt 11, 25-30

L.P. 3. pg.5.
 
 
L.P. 3. pg.5.

–  In Gesù si realizza l’amore di Dio –

a cura di Mons. Alberto Albertazzi – alberipazzi@gmail.com –

Matteo è forse il più controllato fra i quattro evangelisti, nel senso che non si lascia andare facilmente a slanci ed entusiasmi. Per vero dire, la prosa evangelica in genere è alquanto sobria, tanto che un buon divulgatore biblico della prima metà del secolo scorso – l’abate Ricciotti – aveva coniato l’etichetta stilistica «impassibilità dei vangeli» per connotarne la sobrietà di prosa.

Però tutte le regole più o meno generali patiscono delle eccezioni, come capita questa domenica proprio nel vangelo di Matteo. Ci si imbatte infatti in uno dei massimi picchi letterari del libro, di una bellezza che poco invidia alle beatitudini (Mt 5,2-12). È una delle rarissime volte in cui Gesù si rivolge direttamente a Dio, sciogliendo un inno di sapore semi-trinitario. Questo slancio orante di Gesù verso il Padre è convenzionalmente chiamato «meteora giovannea» nel vangelo di Matteo, forse perché ricorda in qualche modo le preghiere di Gesù di casa nel quarto vangelo: in procinto di risuscitare Lazzaro  (Gv 11,41-42) e la ben più magnanima preghiera definita «sacerdotale» (Gv 17,1-26).
La preghiera di questa domenica non deroga dal galateo orante enunciato da Gesù – noto pure all’Antico Testamento (cfr Qo 5,1) – «pregando non sprecate parole come i pagani» (6,7), e si mantiene in una scintillante concisione che esalta l’originalità imprevedibile delle scelte paterne: non sono infatti privilegiati i sapienti e i dotti ma i piccoli, ai quali giunge la rivelazione divina con il suo intramontabile bagaglio di originalità. In ogni caso le scelte divine, a prescindere dal loro contenuto, devono essere apprezzate per il solo fatto di essere divine: «Sì, o Padre, perché così hai voluto nella tua benevolenza».
Questo suo approdo al Padre lo induce a permanervi ancora per qualche istante, scrosciando un primo segmento del teorema trinitario: «Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo». Innanzitutto occorre sottolineare l’accento intenzionale sul possessivo «mio», nel quale si rannicchia un diritto di maggiorascato: se Dio è genericamente padre di tutti, nei confronti del Figlio lo è per identità di natura. È lo stesso puntiglio di paternità che Gesù risorto sfoggia a Maria Maddalena (Gv 20,17). E poi abbiamo pure una comproprietà teologale:  «Tutto mi è stato dato dal Padre mio», anticipante la sovranità universale proclamata a conclusione del vangelo di Matteo: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt 28,18).
Tra i poteri che il Padre snocciola al Figlio c’è anche quello di rivelazione: nessuno conosce il Padre se non per rivelazione da parte del Figlio. Ciò è possibile grazie a una reciproca, perfetta conoscenza fra entrambi. Va tenuto presente che nel linguaggio biblico la conoscenza interpersonale non è un fatto esclusivamente teoretico, ma comporta almeno una sfumatura di amore (cfr Lc 1,34), onde ciò che è tradotto con «nessuno conosce il Figlio…» si potrebbe rendere, magari forzando un po’, con «nessuno ama il Figlio…». In ogni caso che il rapporto fra Padre e Figlio sia essenzialmente di amore resta fuori discussione: con qualche guadagno, perché laddove in Dio spunta l’amore lo Spirito Santo comincia a fare capolino.
Gesù aggiunge un travolgente invito alla sequela: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro».

Stanchi e oppressi da chi? da che cosa? Gesù non lo dice, lo lascia intendere, consentendo che a queste categorie esistenziali si dia il contenuto più ampio. Non soltanto oppressione per sopruso subito, non soltanto fatica per eccesso di operosità tipica di certa umanità odierna degenerata in catena di montaggio; ma la semplice e logorante noia dell’esistere quotidiano, sulla quale Qoelet ha scritto verità intramontabili (cfr capp. 1-3) con la sua autunnale disillusione. Gesù sembra dunque mandare un messaggio del genere: «Se avete voglia di rimotivarvi, mettetevi alla mia sequela». Ma non basta. Aggiunge: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore». Gesù può proclamarsi tale senza auto-smentirsi. Mitezza e umiltà.

Due virtù di cui oggi si sente struggente nostalgia, vista la neobarbarie in cui siamo immersi. Anche il leone si può ammansire, come ricorda implicitamente il Tasso: «… Così leon domestico riprende / l’usato suo furor s’altri l’offende» (La Gerusalemme liberata I 85). Ammette dunque che il leone possa diventare un pacioso gattone: basta non farlo incazzare (sit venia verbo, peraltro ormai purificata dall’uso). L’uomo invece resta il più micidiale e feroce di tutti i viventi. Ben vengano dunque umiltà e mitezza a mitigare le nostre furibonde scalmane in mostruosità crescente.

E si conclude con l’enigma del giogo dolce e leggero. A che si riferisce? Alla croce, domenica scorsa segnalata come condizione di discepolato?  Gesù è capace anche di questo, anticipando il detto: «Chi ama non soffre».