XIX domenica del Tempo ordinario
A cura della Fraternità della Trasfigurazione
Anche in questa domenica prosegue la lettura del sesto capitolo del Vangelo di Giovanni. La volta precedente avevamo visto come Gesù avesse fatto fare un “salto in altezza” ai suoi uditori, aiutandoli a capire la fame e la sete più profonde presenti in loro. Oggi i suoi interlocutori sembrano invece scendere in basso e osservare il Maestro da una prospettiva puramente terrena; essi si sono chiusi al suo mistero e hanno la presunzione di conoscerlo per il solo fatto che, come tutti, anche lui è nato in una famiglia comune. Il verbo “mormorare” li assimila alla generazione dei loro padri, che nel deserto protestarono contro Mosè perché li aveva fatti uscire dall’Egitto. Gesù reagisce riconfermando la sua origine: è, infatti, il Padre colui che lo ha mandato e, di conseguenza, la sua identità più vera consiste nell’essere il suo Inviato. Al Padre è, inoltre, attribuita un’altra azione: egli è colui che attira verso il Figlio. Vengono in mente le parole del profeta Osea: “Io li traevo con legami di bontà”, ma anche il desiderio dell’amata nel Cantico dei Cantici (cf Ct1,4) su cui spesso si sono soffermati i mistici. Colui che ama desidera che l’amato si orienti verso quanto costituisce il suo bene e per tale motivo il Padre, attraverso la Scrittura e la voce dei profeti, attira il popolo verso il Figlio, il solo capace di offrire all’uomo la prospettiva di una vita piena. All’interno di questo brano, che può apparire di difficile comprensione, possiamo soffermarci su questa affermazione di Gesù; essa può suscitare la nostra attenzione in quanto non solo rivela la relazione tra il Padre e il Figlio ma manifesta anche la profondità e l’intensità del loro l’amore per noi. Il Padre è colui che invia il Verbo nel mondo ma anche chi provoca l’attrazione verso di lui, verso quella Parola capace di rivelare Dio all’umanità. Coloro che se ne sono nutriti troveranno in Gesù il compimento pieno di quanto fino a quel momento hanno udito e imparato. A loro, a coloro che credono in lui, Gesù promette la risurrezione nell’ultimo giorno e la vita eterna. Subito dopo egli dichiara di essere “il pane della vita”. La metafora del cibo richiama e approfondisce il discorso precedente: andare da Gesù, credere in lui comporta una comunione così profonda da essere paragonabile a un nutrimento, a un far proprio e assimilare il pensare, il sentire e il volere dell’altro non per un processo di appropriazione, ma grazie a un’identificazione che rende i due sempre più simili. Diversamente dal nostro pane, che può saziare ma non eliminare la morte, quello che Gesù dona è in grado di introdurre in una vita diversa, una vita eterna. Subito dopo egli precisa che è lui stesso quel pane e in un’unica frase sintetizza tutto il mistero della salvezza offerto all’uomo. Il termine “carne” rimanda all’incarnazione a cui Gesù ha alluso in precedenza definendosi come “il pane vivo disceso dal cielo”; nello stesso modo il verbo “dare” al futuro anticipa la sua morte in croce. Non è, dunque, prima di tutto del mistero dell’Eucarestia ciò di cui Gesù sta parlando, anche se in un secondo momento il testo può essere interpretato in questo modo. Il suo significato primo, tuttavia, è da trovare nell’invito a scoprire nella persona di Gesù il solo capace di rispondere in pienezza al desiderio di infinito e di eternità presente nel cuore di ogni uomo attraverso il dono della sua persona, dono non riservato a pochi ma pensato per tutti, “per la vita del mondo”.