XV domenica del tempo ordinario
A cura della Fraterbità della Trasfigurazione
“Il seminatore uscì a seminare”: la parabola che Gesù racconta ai suoi ascoltatori inizia con questa immagine vitale. Non parla di un seminatore qualsiasi, ma lo definisce come “il” seminatore, quasi a dire che si tratta del “seminatore per eccellenza, lui e nessun altro”. Il riferimento è al Padre al quale sono attribuite due importantissime azioni: in primo luogo l’atto di uscire. Il nostro Dio non rimane chiuso, come tante volte siamo forse tentati di pensarlo, nel suo paradiso, nel suo mondo felice, ma è rivolto verso di noi, si coinvolge con noi, ci ha a cuore, “esce” così come quel mattino Gesù era uscito di casa per predicare la Parola e, ancor prima, il Verbo di Dio era uscito dal grembo della Trinità per venire “ad abitare in mezzo a noi”. Quella Chiesa in uscita di cui tanto parla Papa Francesco, fatta di discepoli che “prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano” non è altro che il riflesso di questo atteggiamento del Padre presente all’origine dell’agire cristiano. Questo Padre, inoltre, esce per seminare, per compiere un atto denso di vita, un atto generativo: il seme, infatti, è simbolo di una realtà che cresce, germoglia, dà frutto là dove trova il terreno adatto. Questo inizio della parabola, così lapidario e conciso, si offre come stimolo per la nostra riflessione, in particolare di noi adulti che viviamo in un’epoca in cui ai genitori, agli educatori e ai responsabili di comunità viene spesso rimproverato di non essere generativi, di non rappresentare dei modelli di identificazione significativi per i giovani, di non uscire da noi stessi, dalle nostre fatiche e preoccupazioni per seminare amore per la vita, significati capaci di offrire slancio e senso all’esistenza.
Il gesto del seminatore, inoltre, è ampio: non si limita a gettare il seme in quella parte di terreno in cui la crescita è garantita; egli sembra quasi noncurante del successo, come se fosse preoccupato unicamente di spargere, di diffondere vita, condividendo lo scopo del Figlio venuto “perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. Perché il terreno della nostra esistenza possa fruttificare non basta però aver incontrato qualcuno che, a immagine del Padre, abbia gettato in noi il seme della Parola e dell’esperienza cristiana; la fede, infatti, non è una realtà puramente passiva, ma comporta un coinvolgimento, un’adesione personale come avviene per il terreno buono di cui Matteo afferma che “ascolta la parola e la comprende”, vale a dire la coglie e la fa propria, la trasforma in vita. La crescita, tuttavia, non è necessariamente assicurata; per questo l’evangelista ci mette in guardia rispetto ad alcune situazioni in cui il grembo della terra può rimanere sterile. Il primo rischio è dato dalla superficialità, da una fede che non ha radici profonde per cui un nulla può distogliere da una adesione vera e personale. Il secondo atteggiamento pericoloso è rappresentato dalla mancanza di continuità come accade per quelle esperienze che sembrano maturare in fretta ma non sono in grado di durare nel tempo. L’ultimo rischio sta nel lasciarsi distogliere da altro, nel permettere al mondo e alle sue ricchezze di sedurci, soffocando così l’anelito più profondo del cuore. Sarebbe tuttavia un errore identificarsi con uno solo di questi terreni; tutti e quattro sono presenti in noi, chiamati a dissodare, togliere pietre e rovi perché la vita possa crescere e, di conseguenza, venire comunicata.