XV Domenica Tempo Ordinario Anno C
don Luciano Condina commenta il Vangelo di Lc 10,25-37
Gesù buon samaritano che cura le ferite e ci insegna a fare come Lui
Scendere da Gerusalemme a Gerico descrive l’immagine della decadenza umana: è il passaggio dalla città santa – situata a 754 metri di altitudine – a Gerico, presso il mar Morto – situata sotto il livello del mare a meno 258 metri. La prima rappresenta «il riparo dell’Altissimo» (Sal 90) dove non si deve temere alcun male (Sal 22), la seconda, in quanto città di villeggiatura ricca, opulenta e corrotta – terra di Zaccheo il pubblicano – rappresenta la perdizione.
Contempliamo dunque la discesa morale dell’uomo dai pensieri in Dio ai pensieri del mondo. E, inevitabilmente, non può che finire male al povero pellegrino inverso, inteso come colui che abbandona il sacro per dirigersi al profano.
Quanto dolore abbiamo sperimentato per esserci allontanati dalle cose sane, buone e sante cercando ebbrezza, novità e vita in ciò che vita non possiede. Con questa parabola il Signore spiega a un dottore della legge che voleva «mettere alla prova Gesù» (Lc 10,25) chi fosse da intendersi come prossimo. In questo testo siamo abituati a vedere come prossimo il povero uomo malmenato e il samaritano come qualcuno senza pregiudizi, che considera prossimo ogni bisognoso. Lettura assolutamente corretta e sempre illuminante.
Ma la categoria di «prossimo» può essere intesa sotto diversi aspetti: può essere colui che ci sta vicino nello spazio; il bisognoso, chiunque esso sia; chi ci sta accanto affettivamente, moralmente e nella carità, senza che noi lo sappiamo e che magari consideriamo all’opposto. In quest’ultimo aspetto il samaritano simboleggia quella categoria di persone da cui non ci aspettiamo niente e che, invece, ci sorprendono; persone magari criticate, anche disprezzate, che un bel giorno ci insegnano a vivere compiendo un atto che non saremmo mai stati in grado di compiere.
Il samaritano della parabola, l’eretico, è il solo capace di compiere un gesto d’amore: è Gesù stesso, percepito come eretico dal dottore della legge, un presuntuoso che vuole insegnare l’arte di vivere. Me lo immagino di fronte a Gesù mentre si abbassa gli occhiali – che non esistevano – sul naso, chinando il mento e sollevando le pupille, per chiedere altezzoso: «E chi è il mio prossimo?».
L’immagine, volutamente stereotipata, mostra tutto il limite della legge, che non è sufficiente per arrivare all’amore.
Infatti, nella parabola, un sacerdote e un levita vedono l’uomo mezzo morto e passano oltre. Bisogna ricordare che le norme dell’Antico Testamento vietavano loro di toccare il sangue per non contaminarsi: è la legge, dunque, che impone loro di andare oltre, manifestandone il limite che impedisce di amare realmente.
A due sposi per amarsi non è sufficiente osservare «il decalogo del buon consorte». La legge può descrivere la loro condizione, può fare una diagnosi e dire che forse stai morendo. Ma per amare – e dunque salvare – un uomo è necessario uscire dalla mentalità incastrata nelle regole.
Interessante è la cura: «Gli fasciò le ferite versandogli olio e vino (Lc 10,34)», due elementi simbolici: il vino dell’alleanza e l’olio della consacrazione, che diventeranno nella Chiesa segno dei sacramenti, di ciò che cura e trasforma l’uomo.
Questo avviene nella locanda, che simboleggia la Chiesa, luogo dove poter guarire le ferite, in cui questo samaritano tornerà e ci darà il “di più” che abbiamo speso. Ci darà il Cielo.