XVII Domenica Anno C
don Luciano Condina commenta il Vangelo di Lc 11,1-13
L’angoscia è il senso della nostra insufficienza: fidiamoci di Dio e poniamogli le domande giuste
«Quando pregate non pregate come i pagani i quali credono di venire ascoltati a forza di parole» (Mt 6,7). Gesù esplicita che la forza della preghiera non sta nelle parole, come se fossero una formula magica. Per questo la tradizione della Chiesa ci ha conservato due edizioni diverse del Padre nostro, affinché prendiamo questa preghiera come un’indicazione di fondo, una via meravigliosa per entrare in dialogo con Dio. È la preghiera più bella, più completa e nasconde profondità inaudite.
Tutto è centrato sul rapporto con Dio come Padre a cui chiedere ciò che veramente va chiesto. Il Padre nostro che leggiamo in Luca è più breve ed è contrappuntato dalla parabola dell’amico inopportuno che chiede tre pani a mezzanotte. Si cita il pane nel testo del Padre nostro e nel passo evangelico si parla di uno che chiede con insistenza e invadenza qualcosa di cui ha veramente necessità.
La chiave di questa parabola è che, per pregare veramente, bisogna avere fame, ci dev’essere un problema. L’angoscia è il senso della nostra insufficienza di fronte alla realtà e ci serve per porre le domande giuste a Dio e alla vita. È anche indicativo il fatto che in questa parabola il bisognoso non è chi chiede bensì l’amico del richiedente: Gesù mostra la preghiera di intercessione. Chi non prega non ha pane da dare agli altri e chi non riceve da Dio il pane di ogni giorno, chi non gli chiede di conoscerne il nome che sia in lui santificato, che il suo regno non sia una teoria ma una cosa che ha avvento nella sua vita, ha vita povera. Chi a Dio non sa chiedere perdono non sa neanche perdonare, non sa vivere di quel pane necessario che è tanto richiesto, aspettato da noi e dagli altri. Il pane che cerchiamo negli altri è qualcuno che ci voglia veramente bene, che ci accolga da amico. Questo pane è un amore autentico, una relazione autentica. Nasce allora un rapporto con Dio Padre che, finalmente, fa sbocciare il nostro rapporto con gli altri.
Domenica scorsa Marta, rimproverando Gesù, in fondo gli stava dicendo “venga il mio regno, fa’ ciò che ti dico io”: quante volte l’uomo ha questo delirio di onnipotenza e non si rende conto che con Dio non si perde mai, perché con Dio, quando si cede, si vince. Da questa relazione con il Padre ci accorgiamo di aver bisogno di molto poco per vivere: nel Padre nostro, infatti, chiediamo solo il pane quotidiano, che serve per il giorno in corso. Più cose abbiamo e più patiamo per difenderle.
S. Paolo esorta: «Mangiate il vostro pane in pace» (2Ts 3,12): quanta gente mangia nel piatto altrui, vive di invidia e non consuma il proprio pane in pace. Allora scopriamo di avere disperatamente bisogno di Dio nel momento in cui siamo tentati e che non ci lasci mai da soli. Tantissime volte gli errori della nostra vita sono quelli di affrontare nemici che crediamo di poter vincere da soli. Chiedere a Dio che non ci abbandoni alla tentazione fa eco a una delle più terribili maledizioni dell’Antico Testamento: essere abbandonati ai desideri del proprio cuore.
Nel Padre nostro chiediamo di non essere mai lasciati in balìa del nostro disordine. Tutto ciò nasce dall’intuizione della paternità di Dio che non ci darà una serpe se chiediamo un pesce, uno scorpione per un uovo o una pietra per un pane.
Possa essere questa preghiera preludio di una pace infinita che entra nel nostro cuore, che si può ritrovare se perduta: la pace della fiducia in Dio; credere che scorpioni, serpi e pietre – i mali che la vita spesso ci riserva – sono pesce, uova e pane alla luce della fede.