XVIII domenica del Tempo ordinario

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

La pericope della settimana scorsa terminava con la descrizione di Gesù che si ritira da solo sul monte per sfuggire alla folla intenzionata a farlo re. Si tratta, tuttavia, di un tentativo fallito poiché quando la gente si accorge che i discepoli sono partiti da soli, si dirige verso Cafarnao e trova il Maestro al di là del mare. Subito lo interroga per sapere quando è giunto in quel luogo; Gesù non risponde alla loro domanda, ma fa invece una affermazione dal duplice contenuto. In primo luogo, egli smaschera le motivazioni più vere della loro ricerca: essi sono interessati a soddisfare una dimensione della loro persona, quella fisiologica, che aspira alla sazietà e a un benessere superficiale. Sono invece chiusi al valore dei segni, a quelle realtà che aprono il cuore alla trascendenza. A questa constatazione segue un invito: si tratta di darsi da fare per ottenere un altro tipo di cibo, la cui caratteristica è di rimanere “per la vita eterna” e che sarà donato dal Figlio dell’Uomo, colui la cui missione è confermata dal sigillo del Padre. Orientati dalle parole di Gesù, gli uditori accettano di portare il discorso a un livello superiore e domandano che cosa debbano compiere per fare le opere di Dio. La risposta li lascia spiazzati. Essi non hanno fatto resistenza di fronte alle precedenti parole; sanno, infatti, che l’immagine del nutrimento può richiamare l’importanza della Legge, ma non hanno prestato attenzione alla figura del donatore. Ora Gesù precisa che non si tratta di compiere le opere di Dio perché una sola è l’opera da fare: credere in lui. I suoi interlocutori non gli oppongono un’immediata resistenza, ma rispondono ponendogli a loro volta un interrogativo che contiene anche una richiesta: i loro padri nel deserto hanno mangiato un pane che veniva dal cielo, mentre Gesù ha moltiplicato dei semplici pani d’orzo. Per rendersi credibile dovrebbe, quindi, presentare dei segni e compiere delle opere all’altezza della sua promessa offrendo un alimento che, diversamente dalla manna, non si deteriora. Il cibo a cui gli uditori alludono, e a cui fanno riferimento attraverso la citazione scritturistica, è la Legge, il vero nutrimento del pio israelita. A questo punto Gesù compie la stessa operazione che già avevamo notato in precedenza: così come era passato dal parlare di un cibo che sazia il nostro corpo a un alimento che apre a una dimensione trascendente, anche qui cambia il livello del discorso o, come scrive un famoso esegeta, fa fare “un salto in altezza” a coloro che lo ascoltano. Esso riguarda sia l’origine del dono sia il nutrimento offerto. Il donatore, infatti, non è Mosè ma Dio, che Gesù definisce come suo Padre, e il pane è lui stesso, quel Figlio dell’Uomo a cui aveva già alluso. Al “salto in altezza” proposto in precedenza ora si accompagna un ampliamento di orizzonte: questo cibo “dà la vita al mondo”, riguarda dunque ogni uomo della terra che desidera nutrirsene, senza esclusione alcuna. Esso, inoltre, non è un cibo ma una persona; andando a lui, stringendo una relazione con lui ogni nostra fame e sete, anche quelle che a noi sembrano più inestinguibili, potranno essere saziate. Si tratta di una promessa che può apparire irrealizzabile e tuttavia noi sappiamo che con il dono di sé sulla croce Gesù ha appagato il desiderio più profondo che accomuna ogni uomo: il bisogno d’amore, quel bisogno a cui solo Dio può rispondere in pienezza.