XVIII Domenica T.O. Mt 14,13-21
Diventiamo “pane” per il prossimo
a cura di don Luciano Condina
Diventiamo “pane” per il prossimo
Il brano della moltiplicazione dei pani e dei pesci – che è il miracolo più citato nei vangeli, in tutto sei volte per le due moltiplicazioni – contiene innanzitutto altri miracoli che alla prima lettura sfuggono.
Il primo consiste nel fatto che Gesù, certamente triste per la morte del Battista, vuole stare solo nel deserto dove, al suo arrivo, trova cinquemila persone. Il miracolo è che una folla esce dalla città di corsa per andare in quel luogo e incontrare Dio; scena che richiama l’Esodo in cui un popolo affronta il deserto per seguire la voce di Dio. E, sul far della sera, i cinquemila sono ancora lì: il miracolo è una presenza – quella di Gesù – che fa dimenticare il tempo e lo spazio. Seguirà, quindi, il miracolo vero e proprio della moltiplicazione dei pani e dei pesci: un miracolo di condivisione in cui la sfiducia di chi ha poco pane – il “mio” pane – cederà alla richiesta di chi gli chiede di donare quel poco affinché diventi il “nostro” pane.
«Prese… alzò gli occhi… recitò la benedizione… spezzò e diede» (cfr. Mt 14,19): sono i gesti che rimandano alla consacrazione eucaristica. Qui, Gesù prefigura l’eucarestia come mistero di comunione: il miracolo della moltiplicazione avviene nel momento in cui Egli, ricevuto il dono per tutti, si identifica con esso, dona e si dona. Quel pane e quei pesci, da semplice cibo, si trasformano in amore che dona la vita.
Infine, dopo che tutti sono stati sfamati, le dodici ceste sono ancora miracolosamente piene: è l’emblema della carità, nella quale non manca mai nulla, tutti si saziano e nulla si spreca. Al riguardo Isaia, nella prima lettura, ammonisce chi spreca, chi disperde risorse per ciò che non sazia.
Cambiando prospettiva, il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci richiama alla dinamica relazionale in cui avremmo potuto dare noi da mangiare ma ci siamo scansati, abbiamo tirato dritto o ci siamo eclissati. Il “dare da mangiare” può avere ovviamente molti significati: quello di offrire del cibo a qualcuno, come anche del denaro; oppure può essere riferito al mettere a disposizione il proprio tempo, il proprio ascolto, la propria comprensione, la propria compassione, la propria competenza… insomma dare del proprio, qualunque cosa sia.
Perché ci scansiamo ai problemi altrui? Perché non affrontiamo la “fame” degli altri? Forse perché abbiamo paura di non essere all’altezza o ci sentiamo oppressi da qualcosa che temiamo possa soverchiarci. Quando temiamo di non avere risorse sufficienti, Gesù ci rimanda a questo episodio evangelico, in cui afferma che possiamo soddisfare la fame altrui, affrontare i problemi del prossimo partendo da quel poco che abbiamo; che sarà sempre poco finché rimarrà nella nostra bisaccia. Un seme finché non viene sotterrato non germoglierà e non darà frutto.
La frase chiave è: «Portatemeli qui», pronunciata da Gesù in riferimento ai cinque pani e due pesci (Mt 14,18). Questo avvenimento è la storia della Chiesa; è l’esperienza di un poco che, nelle mani di Cristo, diventa tanto; ed è anche l’esperienza di apertura per entrare nel problema dell’altro.
Mi rendo conto che nel sacerdozio davvero quel poco fatto in nome di Gesù può generare il molto che va assolutamente oltre i nostri meriti. Le piccole risorse che abbiamo, i piccoli numeri che possediamo Cristo li sa spezzare, li sa benedire, li sa cambiare in una moltitudine.
Noi crediamo di sapere chi siamo, ma lo ignoriamo sino a quando a noi si unisce lo Spirito Santo, il fattore di moltiplicazione che il mondo non conosce.