XXII domenica del Tempo ordinario

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

Il brano tratto dal Vangelo di Marco che oggi la liturgia ci propone affronta un problema molto attuale. La nostra fede, infatti, può correre un duplice rischio: da una parte può essere attirata da una forma di tradizionalismo dove l’adesione formale a una serie di norme nasconde un vuoto, una mancanza di relazione personale con Gesù; dall’altra il rifiuto della norma e l’abbandono di ogni tradizione può trasformare il cristianesimo in una teoria sociale disattenta alla dimensione trascendente e alla sacralità della fede. Paradossalmente,  benché molto diversi, i due atteggiamenti hanno un aspetto in comune: in entrambi, infatti, la fede non conduce a un rapporto personale con Dio attraverso la mediazione di Gesù, ma orienta verso l’affermazione dell’Io: un Io che trova la propria sicurezza aderendo a delle regole chiare e ben definite o, al contrario, si sente libero e autonomo grazie al prevalere della propria volontà. Per tale motivo ai farisei che osservano il comportamento dei discepoli di Gesù e lo giudicano basandosi su dei criteri puramente esteriori, egli risponde mettendo in risalto la possibile doppiezza del loro cuore. Il contrasto tra le labbra che onorano Dio e la “lontananza” del cuore, inteso non come sede delle emozioni, ma come centro della persona, del suo pensare, discernere, agire, esprime proprio questa divisione interiore presente nell’uomo per cui al comportamento esterno non corrisponde la motivazione personale, la convinzione profonda. Gesù prosegue ulteriormente il suo discorso scardinando non solo alcune certezze tipiche di chi vive una religiosità puramente di facciata, ma anche quell’atteggiamento caratteristico di ogni essere umano che si esprime come tendenza a cercare fuori di sé l’origine del male. Già il racconto del peccato originale lo aveva mostrato con chiarezza: quando Dio chiede conto ad Adamo della sua disobbedienza questi, invece di riconoscere il proprio errore,  attribuisce la responsabilità a Eva che, a sua volta, incolpa il serpente (cf Gen 3,11-13). Si tratta di un meccanismo vecchio quanto il mondo, a cui la psicologia attribuisce il nome di proiezione. Esso è funzionale a conservare una buona immagine di sé, individuando le cause di ogni male al di fuori della propria persona. Le parole di Gesù, precedute da un invito perentorio ad ascoltare e comprendere, irrompono nella nostra vita con una forza e una categoricità che lacerano le nostre difese e impediscono di trovare alibi per proteggere la nostra immagine. L’origine del male non sta all’esterno, come siamo tentati di affermare, ma è dentro di noi, nella nostra vulnerabilità e nel nostro peccato. Ritroviamo di nuovo il termine “cuore”, questa volta non per evidenziare una distanza tra ciò che proclamiamo e le vere intenzioni presenti in noi, ma per mettere in risalto l’origine, il luogo da cui provengono i propositi cattivi. Sono proprio essi, sottolinea Gesù, a rendere impuro l’uomo, a contaminarlo. Questa affermazione ci offre una seconda opportunità di esercitare la nostra libertà. La prima consisteva nell’umile riconoscimento della presenza del male dentro e non fuori di noi. La seconda riguarda la possibilità di non aderire alle intenzioni malevole che ci abitano, di non lasciarci da esse condizionare. I propositi impuri sono presenti dentro di noi e il lungo elenco di Marco ci permette di individuarli e meglio riconoscerli; noi siamo tuttavia liberi di non seguirli, di orientare il nostro cuore – pensieri, volontà, decisioni – in un’altra direzione, verso la ricerca della vera purezza, quella che – come leggiamo nel discorso della montagna – ci permette di vedere Dio (cf Mt 5,8) e di percepire il suo volto riflesso in quello del fratello, soprattutto in chi ci vive accanto.