XXIII Domenica Anno C

Lc 14,25-33.
 
 
Lc 14,25-33.

don Luciano Condina commenta il Vangelo di Lc 14,25-33

Per essere discepoli di Cristo dobbiamo amarlo profondamente, più di familiari e amici

Le parole di Gesù in questo vangelo appaiono molto dure, anche dopo essere state mitigate dalla nuova traduzione 2009: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14, 25-27). La traduzione letterale parla proprio di «odio» per i propri cari come condizione al discepolato. Come conciliare questo radicalismo senza contraddire il comandamento «onora il padre e la madre»?

Gesù, in realtà, non sta dicendo che, se non ami i tuoi cari, non ti accetta, ma sta spiegando che «non si può essere suoi discepoli», ossia che non si può avere la capacità di esserlo. I genitori, la famiglia e i propri cari sono cosa molto buona, ma il pericolo di restare schiavi tutta la vita delle aspettative familiari è sempre molto forte. Gesù sta dicendo che la vita vera, quella in grado di colmare il nostro desiderio di pienezza, non può venire da gente povera come noi stessi, quali possono essere il padre, la madre, e tutti i familiari. I genitori certamente vanno rispettati, amati e curati, ma non sono la sorgente della vita: la sorgente della vita è Dio. Chi non ha avuto questa delusione, chi non ha toccato con mano la loro debolezza, semplicemente non può farcela a seguire il Signore Gesù Cristo.

E la sequela prevede che tu lasci le tue reti per seguire il cammino che Gesù ti indica. Finché non sperimenti la delusione che le tue reti non potranno darti ciò che l’abisso del tuo cuore brama, non possederai gli strumenti per perseverare nella sequela di Cristo. Se una persona non ha iniziato a percepire quanto sia fallace il senso delle aspettative familiari, di tutto quello che è lo stare nella piacevolezza di non aver deluso i propri genitori, non può vivere la verità che rende liberi.

Pensiamo a san Francesco e al suo distacco dalle aspettative paterne, erano radicate in lui molto più di quanto si pensi, in quanto voleva diventare cavaliere per riscattare la condizione non nobiliare della sua famiglia: invece sposerà la condizione del povero, che è la condizione opposta a quella del nobile. Ossia abbraccerà proprio ciò che la sua figura paterna odiava: la povertà. Ha dunque odiato le aspettative paterne.

Questo testo non parla dei genitori, ma del cuore schiavo e soggetto alle schiavitù affettive dei legami familiari e amicali; parla della nostra attitudine a far dipendere la nostra vita dagli altri, che possono costringerci a fare cose fuori dalla verità e dalla realtà.

Calcolare le spese per la costruzione di una torre o gli uomini necessari per affrontare una battaglia significa fare i conti con i propri legami, che impediscono la libertà necessaria per essere discepoli di Cristo. Questo apre la prospettiva all’altro grande argomento altrettanto serio: il rapporto con i beni di questo mondo. «Chi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo» (Lc 14,33). Parafrasando: “chi ha qualcosa che ritiene più importante di me non ce la farà a essere mio discepolo”. Qui non si intende Gesù che non ci accoglie come discepoli, quanto il fatto che non ce la faremo proprio a seguirlo, perché la volontà di Dio non si può compiere senza libertà dagli affetti e dai beni di questo mondo. 

Non è assolutamente possibile varcare la soglia di eternità del regno dei cieli, dell’essere di Cristo, se non si cambiano gli assoluti del cuore, le priorità, le necessità della propria esistenza.