XXIII domenica del Tempo ordinario

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

Dopo essersi scontrato con l’inflessibilità e durezza di cuore di scribi e farisei, Gesù si reca in territorio pagano. Giunto a Sidone, racconta Marco, “gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli le mani”. Un sordomuto non è un infermo qualunque; la sua disabilità, infatti, non ha solo a che fare con il corpo ma riguarda anche la psiche e, in particolare, quella dimensione che caratterizza l’essere umano: la capacità relazionale. Un sordomuto non parla e non sente e, di conseguenza, non può esercitare quelle due funzioni che permettono di creare un rapporto: l’ascolto e la comunicazione. La sua vita sociale è limitata ed egli rischia di essere marginalizzato e non avere contatti con gli altri. In lui possiamo ritrovare noi stessi e le nostre fatiche relazionali: le chiusure, le mancanze di ascolto e di comunicazione, le resistenze che bloccano le nostre aperture all’altro; ma la realtà del sordomuto può riflettere anche il nostro modo di metterci in rapporto con Dio, la superficialità con cui ci accostiamo alla sua parola senza permetterle di entrare veramente dentro di noi e trasformarci, la preghiera ripetitiva e superficiale che non ci apre alla relazione con Lui. Quest’uomo, dunque, rappresenta tutti noi, tutti gli esseri umani, tanto più che, come evidenzia l’inizio di questa pericope, egli è pagano e, di conseguenza, simboleggia tutta l’umanità che senza Dio è incapace di udire e di parlare. Come si comporta Gesù di fronte alla richiesta di imporgli le mani da parte di coloro che lo conducono a lui? La descrizione che Marco presenta è dettagliata minuziosamente. Come primo gesto Gesù lo porta in disparte, lontano dalla folla: un modo di fare che troverà successivamente un’eco nell’invito di non rivelare a nessuno quanto accaduto. Le opere di Dio devono compiersi nel silenzio, evitare la confusione, il clamore suscitato dalle emozioni per poter raggiungere le profondità del cuore, dove può avvenire il primo vero dialogo tra l’uomo e Dio. Il secondo atto compiuto da Gesù consiste in un contatto diretto tra il suo corpo – saliva, dita – e quello del sordomuto. Un contatto non necessario poiché in altre situazioni, come per esempio con l’emorroissa, il Signore ha ridato la salute a una persona senza compiere alcun gesto e avere il minimo contatto; non necessario, ma tuttavia rivelatore della vicinanza di Dio nei confronti dell’uomo. Con l’incarnazione il Verbo ha assunto la nostra carne ed è venuto ad “abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14) abolendo ogni distanza tra Dio e l’uomo; il suo agire è dunque ben simbolizzato da questi gesti il cui fine non è solo la guarigione ma la riapertura dell’uomo alla relazione con Dio e con i fratelli. Entrambe le dimensioni sono ben presenti in questa pericope: Gesù tocca il corpo dell’uomo con il suo corpo e nello stesso tempo guarda verso il cielo; l’apertura che avviene nel corpo del sordomuto, ma soprattutto nel suo cuore, nella sua interiorità, lo ristabilisce all’interno delle relazioni fondamentali e ripristina il legame tra cielo e terra. Nell’agire di Gesù, nella forza delle sue dita che ridonano all’uomo la sua vera identità di essere “aperto” alla relazione con l’altro, e quindi non chiuso nel proprio isolamento, possiamo scorgere i segni di una nuova creazione. Nel giardino di Eden con il peccato Adamo aveva perso sia la relazione con Dio, da cui si era nascosto, sia quella con Eva, a cui aveva attribuito la colpa del proprio peccato. Il sordomuto risanato dal Signore recupera quanto il nostro progenitore aveva smarrito grazie all’agire di Gesù, un agire che simboleggia tutto quanto egli ha compiuto su questa terra: ridonare a ogni uomo la vita vera, la sua identità di figlio di Dio, capace di donare e ricevere amore. Per tale motivo davanti alla sua azione creatrice e trasformante anche noi possiamo esclamare con stupore: “Ha fatto bene ogni cosa!”.