XXIV domenica tempo ordinario Mt 18,21-35
ll perdono è frutto di un cuore aperto a Dio –
a cura di Mons. Alberto Albertazzi – alberipazzi@gmail.com –
Ancora una volta è di turno Pietro, ma con una domanda mirata: «Signore, se mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E il maestro, in risposta, si professa perdonatore a oltranza: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette», che fa esattamente 490. Se questi numeri si devono prendere con precisione aritmetica il conteggio del perdono diventa complicato, essendo facile perderne qualcuno per la strada; né le cose si semplificano sostanzialmente, se traduciamo «settantasette volte», come suggerisce GianFranco Nolli.
Perché Pietro propone il perdono settemplice? Non per ghiribizzo ma perché il numero sette, secondo la simbolica biblica, rappresenta la perfezione. In fatto di perdono non è questione delle volte che viene concesso ma di qualità. Ossia il perdono dev’essere perfetto, senza codazzi di risentimento. In pratica è rottamata la formula “mnemonica” del perdono, che si verbalizza nel ricorrente teorema «perdono ma non dimentico”. Il perdono che Gesù prospetta non è dunque mnemonico ma “cardiaco”, come si legge a conclusione della successiva parabola: «Così anche il Padre mio celeste farà con voi, se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello». Il perdono di cuore è retroattivo, fa compiere il famoso passo indietro: arretra cioè il rapporto fra i due alla situazione precedente l’evento che l’ha perturbata.
Per farsi capire meglio Gesù racconta una parabola che leggiamo solo in Matteo. Il meccanismo è semplice: due sperequate situazioni debitorie. Un indebitamento colossale e un indebitamento ordinario, circa tre mesi di stipendio di un salariato. Il mega-debito viene condonato e il mini-debito no. Figura mediana è il titolare del mega-debito che, a propria volta, esige violentemente il saldo di un mini-debito da parte di un collega, che non esita a prendere per il collo. A nulla valgono le implorazioni di quest’ultimo, ma i nodi tornano al pettine. Il mega-creditore è informato dell’accaduto e lo manda in galera finché non abbia restituito tutto il dovuto. Come potesse restituire stando al fresco non si sa: in racconti didattici come sono le parabole sta bene un po’ di assurdo, che conferisce alla vicenda un amabile tono di favola.
Questa domenica abbiamo variazioni sul tema della più ardua petizione del Padrenostro: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Il “come” sembra avere carattere equativo: nella stessa misura con cui noi rimettiamo ai nostri debitori. Così, interpretando noi stessi, diventiamo artefici del perdono sperato da Dio, quasi ce lo prefabbrichiamo dosando il perdono ai nostri fratelli.
In Luca (11,4) la faccenda diventa ancora più pericolosa perché, mettendo il carro davanti ai buoi, garantisce ciò che è da vedersi: «rimetti a noi i nostri peccati, perché anche noi stessi li rimettiamo a ognuno che deve a noi». Così in contorta traduzione letterale. Si garantisce cioè che noi perdoniamo; di conseguenza Dio, per non essere da meno, è tenuto anche lui al perdono nei nostri confronti.
Insomma tanto Luca quanto Matteo ci dicono che dal perdono da noi accordato dipende la nostra situazione nell’Aldilà: se perdoniamo saremo perdonati, se siamo sparagnini nel perdono rischieremo almeno di rosolarci un po’ in purgatorio. Paolo nella lettera ai Colossesi (3,13) fa un raffinato ricamo sul perdono: «… sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi».
Affiora in questa esortazione paolina un’arguta definizione del cristiano: il cristiano è essenzialmente un perdonato, che a propria volta deve perdonare. Non esiste misfatto, per quanto enorme – nella parabola si parla di diecimila talenti! – che non possa essere perdonato da Dio.
Non sappiamo che cosa avesse combinato il buon ladrone (Lc 23,39-43), ma il passaporto per il paradiso gli è giunto immediato «per una lagrimetta che ’l mi toglie»; così un satanello rimbrotta un angelo che gli sottrae l’anima da lui ritenuta di sua spettanza (Dante, Purgatorio V 107). Il fatto che il più garantito di tutti i santi fosse stato in vita un manigoldo professionista, ci mette di buon animo, perché dimostra che la misericordia divina «ha sì gran braccia / che prende ciò che si rivolge a lei» (ancora Dante, Purgatorio III 122-123).