XXIX domenica del Tempo ordinario
A cura della Fraternità della Trasfigurazione
Il contesto in cui si colloca il brano evangelico di oggi può a giusto titolo essere definito drammatico; esso è, infatti, preceduto dalla descrizione di Gesù in cammino verso Gerusalemme mentre coloro che lo seguono sono “sgomenti” e “impauriti”. Nonostante il timore dei discepoli il Maestro per la terza volta annuncia il suo destino di passione e di morte. Si tratta di parole che avrebbero dovuto provocare terrore e sconcerto nei suoi, ma evidentemente la paura non riconosciuta ha il potere di nascondere la realtà e camuffarla adattandola alle nostre ambizioni e desideri. Solo in questo senso si può comprendere la richiesta dei figli di Zebedeo, che a un lettore esterno non può non apparire inadeguata e inopportuna sia nella forma sia nel contenuto. Nella forma perché i due fratelli usano un verbo all’imperativo e, pur rivolgendosi a Gesù con il titolo di Maestro, lo trattano come se fosse il loro servo a cui stanno impartendo un ordine in modo perentorio e categorico. La loro richiesta appare anche del tutto inadatta al momento che stanno vivendo; così, ancora una volta, vengono in mente le parole dette a Pietro, quando il Signore lo rimprovera di non pensare “secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8,33). La risposta di Gesù è come sempre regale: egli non si inalbera vedendosi trattare come un sottoposto pur essendo il loro Maestro; conosce forse troppo bene il carattere dei due fratelli, a cui non a caso era stato dato il soprannome di “figli del tuono” (Mc 3,17). Risponde invece ponendo loro una domanda e riportandoli alla realtà: “voi non sapete quello che chiedete”. Egli, tuttavia, non si scandalizza della loro richiesta: voler sedere accanto a Gesù nella gloria del Regno non è sbagliato; è tuttavia scorretto desiderarlo dimenticando le parole appena udite che parlano di passione e di croce. Le immagini utilizzate – il calice e il battesimo, che richiamano il tema della sofferenza e anche del martirio – sono uno stimolo grazie al quale Giacomo e Giovanni possono ripensare in termini diversi al significato della gloria. Il lettore che osserva dall’esterno già sa che i due fratelli percorreranno un cammino di vera conversione e dalla risposta troppo sicura e presuntuosa del momento arriveranno a condividere davvero, benché in modi diversi, il calice e il battesimo del Signore. Anche in quell’ora, però, dovranno comprendere che non esiste alcun diritto ai primi posti; il passivo divino “è stato preparato”, che abitualmente sottintende la persona del Padre, aiuta a comprendere come nessun uomo, anche il più meritorio, può arrogarsi la pretesa di decidere del proprio destino. Di fronte alla richiesta dei figli di Zebedeo gli altri dieci reagiscono. Gesù, che li conosce bene, sa che il loro sdegno non nasce da un giudizio in merito alla domanda dei due, considerata inopportuna o distante dal modo di pensare di Gesù; esso deriva invece dalle ambizioni e dalla rivalità che animano l’intero gruppo. Egli, allora, li chiama a sé e, dopo aver stigmatizzato il modo di esercitare il potere da parte delle autorità mondane, presenta i criteri del tutto opposti che regolano lo stile comunitario di coloro che vogliono seguirlo. Qui l’accoglienza paziente con cui Gesù reagisce alle fragilità dei suoi si accompagna alla categoricità dell’affermazione: “tra voi però non è così”, da cui non si può derogare; è, infatti, solo l’umile servizio ciò che può rendere grande un cristiano.