XXV domenica del Temp ordinario

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

Nel brano evangelico di domenica scorsa avevamo ascoltato Gesù che, dopo il primo annuncio della passione, rimproverava Pietro esortandolo a pensare secondo Dio e non secondo gli uomini. Un invito che, come vedremo dalla pericope odierna, non è stato recepito né dall’apostolo né dai suoi compagni. Gesù e i suoi attraversano la Galilea in incognito; niente, infatti, deve ritardare il loro itinerario verso Gerusalemme e, mentre camminano, il Maestro li istruisce annunciando loro di nuovo la sua passione, morte e risurrezione. La ripetizione dello stesso contenuto a così breve distanza di tempo evidenzia l’importanza che esso ha per l’evangelista. Se il testo precedente sottolineava la necessità di quanto doveva avvenire, oggi l’attenzione si rivolge al verbo “consegnare” declinato alla forma passiva e che, dunque, ha come soggetto sottinteso il Padre. Nel Vangelo di Giovanni leggiamo che “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio Unigenito” (Gv 3,16a); nel brano odierno questa offerta, il cui scopo è il dono della vita eterna a chiunque crede (cf Gv 3,16b), si specifica, si concretizza: il desiderio del Padre è che la vita del Figlio sia spesa, donata senza riserve e ciò non potrà avvenire se non lasciandolo indifeso, in balia della volontà degli uomini. Si tratta di un messaggio da accogliere e contemplare in quanto rivela il “grande amore” (1 Gv 3,1) del Padre e del Figlio verso di noi. I discepoli, tuttavia, sono incapaci di comprenderlo non a causa della sua complessità ma in quanto il timore li rende resistenti, difensivi: basterebbe una domanda per aprire in loro la mente e il cuore, ma “Essi avevano paura di interrogarlo”. Evidentemente a Gesù non sfugge il significato profondo di questo non voler sapere da parte dei discepoli e, giunti a casa a Cafarnao, chiede loro di che cosa stessero discutendo lungo la via. Il silenzio dei suoi esprime nello stesso tempo la vergogna nel riconoscere le loro meschine ambizioni e l’ambivalenza di chi sa di dover affrontare un problema, ma resiste. Più precisamente i discepoli non solo evitano l’argomento, mostrando un’assoluta mancanza di empatia e solidarietà nei confronti del Signore, ma compensano anche alle loro angosce coinvolgendosi in discussioni grandiose e competitive. La risposta di Gesù è semplicemente regale: egli non rimprovera, non fa la vittima, non colpevolizza, ma mette completamente da parte il suo Io, che avrebbe tutti i diritti di reagire di fronte alla loro totale mancanza di vicinanza e comprensione. Vengono in mente le parole del Sl 69: “Mi aspettavo compassione, ma invano, consolatori, ma non ne ho trovati”. Esse si addicono bene non solo al momento della passione, ma anche a questo tempo della vita di Gesù, se non a tutta la sua esistenza in cui il suo donarsi non ha trovato risposta da parte di coloro che vivevano con lui. Egli, però, non ha mai rivendicato nulla, si è sempre messo da parte e preoccupato non per sé ma per i suoi. Così è avvenuto anche questa volta: senza riprendere il discorso di cui gli apostoli si vergognavano, Gesù propone loro un modo diverso di vedere la realtà, un modo di pensare “secondo Dio” (Mc 8,33) dove i criteri in base ai quali si definisce il valore di una persona sono completamente capovolti: è il servizio, e non il potere, ciò che determina la grandezza del discepolo, è la sua capacità di aderire al messaggio di Gesù e accoglierlo, riconoscendo la sua presenza in tutti coloro che sono marginali e senza importanza nella società, ma hanno invece un posto centrale nel suo cuore.