XXVI domenica tempo ordinario Mt 21, 28-32

 
 

Il regno di Dio è per chi gli apre il cuore –

a cura di Mons. Alberto Albertazzi – alberipazzi@gmail.com –

Questa domenica siamo ancora in una vigna. E ancora esclusivamente in Matteo. Gli altri evangelisti ignorano questa paraboletta scarna ed essenziale. Taluni ritengono che sia lo scheletro narrativo della famosa parabola del figlio prodigo, o del padre misericordioso come oggi si preferisce chiamarla. Luca se ne sarebbe impossessato, impinguandola con ricercati fronzoli narrativi, sino a far dire a Giovanni Papini: «Non so cosa pagherei per avere scritto io la parabola del figlio prodigo». Ma lasciamo a Luca questo blasone letterario. In ogni caso non basta avere due figli per decidere che uno dei due sia prodigo e l’altro abbia il muso duro. Allora anche la storia di Caino e Abele o di Romolo e Remo potrebbe essere impalcatura letteraria di quella parabola.

Non perdiamo di vista i destinatari della mini-parabola odierna, diversi da quelli che si sono beccata la parabola del figlio prodigo: quest’ultima, infatti, è mirata sulla coppia classica scribi/farisei mentre quella oggi ricorrente è il ben servito a sacerdoti e anziani del popolo. Si tratta comunque sempre di ceffi poco simpatici a Gesù ed emeriti rompiscatole. Il meccanismo narrativo è essenziale, secondo la parsimonia verbale di Matteo che non ama lungaggini. C’è un’interpellanza con toni di sfida ai destinatari: «Che ve ne pare?». Gesù vuole che la risposta venga da loro. Sembra quasi che questa interpellanza sia fatta con tono sornione e ammiccante. Immediatamente lo status quaestionis: «Un uomo aveva due figli». Fin qui nulla di straordinario; si dice che Priamo ne avesse avuti cento! Probabilmente non tutti da Ecuba… Due figli di segno opposto: nel primo la non-voglia diventa voglia. Nel secondo la voglia diventa non-voglia. Per entrambi ribaltamento a centottanta gradi della situazione. Il primo è burbero nel suo secco «non ne ho voglia». E il padre non fa nulla per invogliarlo. Gli resta una cartuccia di riserva: quella dell’altro figlio, il quale con untuosa deferenza dice «sì, signore». Ma poi non vi andò. E la parabola termina così, ma si arriva alla classica “morale della favola”, che si sviluppa a partire da un’ovvia domanda di Gesù ai destinatari: «Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». La risposta non può che essere a favore del primo che, pur non avendo voglia, va nella vigna.

A questo punto, allusivamente, Gesù applica il congegno della parabola a pubblicani e prostitute in rapporto ai sacerdoti e anziani del popolo: già solo siffatto confronto per questi ultimi doveva essere insopportabile. Quando Gesù vuol essere provocatorio ci riesce magnificamente. Pubblicani e prostitute hanno accolto la tonante predicazione di Giovanni Battista, facendo scattare in sé il ravvedimento. Erano partiti con il no alla legge, a Dio, alla dignità e correttezza. Ma Giovanni è riuscito a fare breccia nei loro cuori. Mentre, pur essendo venuto “sulla via della giustizia” di cui quei perbenisti si reputavano fieri paladini, non gli hanno dato retta e sono andati avanti per la loro ipocrita strada, lastricata di spocchia e arroganza. Questi gentiluomini erano partiti con il sì, ma soltanto apparente e di tornaconto. Nessuno è più ottuso di chi si reputa non bisognoso di pentimento. Il portabandiera di questi inappuntabili e noiosissimi personaggi lo troviamo nella parabola del fariseo e del pubblicano al tempio (Lc 18,8-14).
Ma Gesù fa precedere la sua rampogna da una fiera e solenne dichiarazione, preceduta dalla consueta clausola magisteriale «in verità». Ebbene, che cosa dice Gesù in verità? Ecco: «I pubblicani e le prostitute vi passeranno davanti nel regno di Dio». I nostri probiviri non potevano essere più squalificati! I figuri da essi ritenuti più abbietti bagneranno loro il naso, precedendoli nel regno di Dio. Non è detto che essi, poveracci, ne restino esclusi, ma solo che avranno posizione meno ragguardevole di quella spettante alle summenzionate categorie. Ciò è più che sufficiente per eccitare la loro irritazione. Insomma: se Gesù voleva ficcarsi nei guai, che sono appena dietro l’angolo, non poteva fare di meglio. Ma tanto ormai la sua posizione è compromessa e allora perché non togliersi qualche sassolino dalla scarpa?

Più avanti (cfr Mt 23,1-36) Gesù non si toglierà soltanto qualche sassolino ma un intero acciottolato, assestando a questi campioni di probità di facciata veementissime sferzate, che mettono a nudo le loro malefatte, camuffate di bolso legalismo.

Ultima cosa. Gesù ha detto «regno di Dio» invece di «regno dei cieli», contravvenendo alle consegne che l’evangelista si è dato: non è la sola volta (cfr Mt 12,28; 19,24; 21,43). Non si dimentichi che Matteo prima era un pubblicano (cfr Mt 9,9): ha usato in questa circostanza la formula palese invece dell’eufemismo per rendere ancora più sfavillante la vittoria terminale della sua categoria? È almeno pittoresco pensarlo.