XXVII domenica tempo ordinario Mt 21, 33-34
La «grandiosa spericolatezza» di Dio –
a cura di Mons. Alberto Albertazzi – alberipazzi@gmail.com –
Ancora sacerdoti e anziani del popolo, e ancora una vigna! Arguta sintonia fra i ritmi stagionali e le selezioni evangeliche. Viene in mente Carducci in Faida di comune: «forte odora per le vigne la vendemmia già matura». Le parabole di queste domeniche trovano particolare risonanza a Gattinara! Ancora una volta, come due domeniche fa, un padrone recluta vignaioli ai quali cede in affitto una vigna, dopo averla scrupolosamente attrezzata per la lavorazione: l’ha bene recintata, vi ha sistemato il torchio per spremere i grappoli, vi ha costruito una torre. Tutto è pronto: basta solo che arrivi il tempo della raccolta e che i contadini abbiano voglia di lavorare. Su quest’ultima circostanza non sembra esserci dubbio. Ma avevano voglia di lavorare nei propri interessi. Apriamo una parentesi. Se la vigna era data in affitto, i frutti non dovevano essere dei vignaioli? Secondo il diritto odierno, certamente. Secondo il diritto antico non saprei. Forse era meglio che la traduzione non si compromettesse, rendendo neutralmente con consegnò o affidò. Chiusa parentesi, del resto la faccenda non incide sulla meccanica della parabola. Sistemate le cose, il padrone se ne va lontano. Giunta la vendemmia, o a vino già prodotto, manda i suoi servi a rivendicare quanto di spettanza: e se così è, bonifichiamo la traduzione “dare in affitto”. I frutti da lui richiesti potevano esserne il canone.
I contadini però non erano solo contadini ma anche delinquenti. Approfittando della lontananza del padrone, malmenano violentemente i suoi fattorini, facendoci anche scappare dei morti. Manda altri servi, possiamo immaginare con quale loro delizia, e, anche se più numerosi dei primi quindi più in grado di difendersi, subiscono pari trattamento.
Colpo di scena! Manda il proprio figlio mugolando: «Avranno rispetto per mio figlio». Ingenuità colossale, spericolatezza scimunita! Chi, visti i precedenti, avrebbe mandato il proprio figlio fra quei manigoldi? Ma non è soltanto il colpo di scena, è anche il punto di snodo della parabola e la sua chiave interpretativa. Ora si può uscire di metafora e smascherare i personaggi, avendo intuito che il figlio è il Figlio, da scriversi con la maiuscola essendo il Figlio di Dio. In questa parabola è racchiusa l’intera storia della salvezza. La vigna è il popolo d’Israele, dilatabile in regime neotestamentario all’intera umanità. I vignaioli sono le autorità giudaiche spadroneggianti con sussiego pari alla goffaggine sul popolo d’Israele. I primi inviati sono i profeti, non sempre accolti con benevolenza e sovente perseguitati (si pensi a Geremia) e il figlio è Gesù Cristo. Questa parabola, nota tradizionalmente come “dei vignaioli perfidi”, mi piacerebbe intitolarla “parabola della grandiosa spericolatezza divina”. In essa si rannicchiano varie meditazioni cristologiche del Nuovo Testamento. Cito, una per tutte, l’inno cristologico della lettera di Paolo al Filippesi (2,5-11).
Ma è una parabola in andata e ritorno. Il ritorno scatta quando Gesù chiede all’uditorio (anziani del popolo e sacerdoti, non si dimentichi): «Quando verrà il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Risposta: «Li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». Inconsapevole suicidio! L’autorità giudaica non ha captato quanto fosse sottilmente mirata questa parabola. E Gesù conclude citando il salmo 117,21 in stile autoreferenziale: «La pietra scartata dai costruttori / è diventata pietra d’angolo». La pietra scartata, ossia il figlio fatto fuori, è lui, riabilitato dalla risurrezione, in posizione strutturale dell’intera costruzione. E la conclusione di Gesù è lapidaria (per l’appunto): «Perciò vi dico: a voi sarà tolto ancora il regno di Dio e sarà dato a un popolo che produca i frutti». In questa dichiarazione enigmatica si coglie in filigrana la Chiesa, che nel piano di Dio prenderà il posto dell’antico Israele, non più legittimato come popolo di Dio, in barba alla classica formula di alleanza ricorrentissima nel profetismo anticotestamentario, con una primitiva formulazione in Levitico (26,12): «Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio».
In questa parabola Gesù assesta un’altra sciabolata, come se non bastasse quella di domenica scorsa, a quei figuri spadroneggianti sul popolo in nome di una legge maniacalmente letta, interpretata e vissuta. E per giunta ostinatamente dicendo «regno di Dio» invece di «regno dei cieli». Sembra quasi che prenda gusto a irritare l’uditorio, pronunciando il nome ineffabile connettendolo con la sua esclusione da quel regno.