XXX domenica del Tempo ordinario

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

La scorsa settimana avevo concluso la meditazione affermando che Dio e Cesare non possono essere equiparati e posti sullo stesso piano, poiché a Dio dobbiamo dare tutto e a chi governa solo quanto gli compete. Ed ecco che oggi la liturgia ci propone l’ennesimo episodio in cui i nemici di Gesù cercano di metterlo alla prova; anche qui si parla di amare Dio con tutto se stessi: cuore, anima e mente. Ancora una volta il tentativo di incastrare Gesù per poi poterlo accusare ottiene l’effetto opposto: con le loro domande i suoi rivali non solo non riescono a screditarlo, ma sembrano invece stimolare la sua mente e il suo spirito in modo tale che sia a loro sia a noi venga offerta una profonda sintesi di tutta la Scrittura. All’interrogativo rispetto a quale sia il più grande comandamento della Legge, Gesù risponde citando due brani biblici, uno tratto dal Deuteronomio e l’altro dal Levitico. “Niente di nuovo, quindi”, si potrebbe obiettare. In realtà la novità esiste ed è rilevante; essa consiste nel porre al centro della fede del credente il comandamento dell’amore declinato nella sua duplice dimensione di “amore di Dio” e “amore del prossimo”. “L’amore” – infatti – “non si divide. Scegli pure ciò che vuoi amare e il resto seguirà da sé”, così scriveva Sant’Agostino mettendo in evidenza come l’amore sia diffusivo; lo si può orientare in una precisa direzione, per esempio verso Dio, ma esso non potrà fare a meno di indirizzarsi anche in senso opposto: l’amore per i fratelli. Le parole di Gesù permettono di individuare altre caratteristiche dell’amore. Esso è, innanzitutto, una realtà dinamica. Il verbo “amerai” utilizzato non all’imperativo ma al futuro aiuta a comprendere come l’amore non sia statico ma rappresenti una realtà in continua evoluzione, una crescita progressiva in cui, se ci lasciamo plasmare da Dio, entreremo in un processo in perenne sviluppo. Nemmeno la morte potrà fermarlo, anzi; in cielo, infatti, l’amore sarà la nostra unica attività, anche lì guidata da un principio di crescita costante, “di inizio in inizio attraverso inizi che non hanno mai fine”, come scriveva Gregorio di Nissa. La preziosa sintesi operata da Gesù permette di conoscere un’altra proprietà dell’amore: esso è totalizzante, esige una misura assoluta; se è vero amore, infatti, non conosce limiti o riserve. Questo è particolarmente vero per l’amore che rivolgiamo a Dio, un amore che dovrebbe coinvolgere pienamente la nostra persona senza lasciare spazio a nessun atteggiamento autoreferenziale, ad alcun ripiegamento su sé stessi. Perché è il nostro Io tendente a reclamare i propri diritti l’ostacolo che ci impedisce di amare. Il fratello, al contrario, deve essere l’oggetto del nostro bene innanzitutto per la dignità che lo contraddistingue e, nello stesso tempo, perché l’amore rivolto unicamente a Dio potrebbe trasformarsi in pura utopia, in mera illusione. L’amore umano, invece, esige concretezza, cresce grazie alla capacità di accogliere l’altro e di integrarne la diversità. Già l’evangelista Giovanni scriveva: “Chi non ama il fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). Tutti siamo tentati di costruirci un Dio fatto a nostra immagine. Il fratello è l’antidoto contro questa tentazione, poiché ci obbliga a uscire da noi stessi per accettare l’altro così come è attraverso quella “scuola d’amore” che è la fraternità.