XXXI domenica del Tempo ordinario

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

Il Vangelo di domenica aveva messo in risalto la grande capacità di sintesi di Gesù, che era riuscito a riassumere in due comandamenti l’infinito numero di norme e prescrizioni a cui il pio ebreo doveva aderire. Oggi possiamo ammirare l’equilibrio del suo giudizio. Diversamente da quanto avviene in molte persone che, di fronte al comportamento immorale di coloro che professano una fede si sentono giustificati nell’abbandonarla, Gesù distingue tra l’oggetto della predicazione e le opere. Bisogna osservare la Legge, ma non imitare i comportamenti di chi la propone senza viverla. La fede è un dono di cui ognuno è responsabile e non può utilizzare la mancata testimonianza altrui per giustificare la propria incoerenza. Dopo aver suggerito questo saggio criterio dell’agire, Gesù inizia a delineare alcuni degli atteggiamenti contraddittori di scribi e farisei. Essi sono innanzitutto descritti come coloro che seggono sulla cattedra di Mosè e, di conseguenza, si presentano come gli autorevoli interpreti del suo magistero; il loro comportamento, tuttavia, è doppio poiché al contenuto delle loro parole non corrispondono azioni a esse conformi. Tale doppiezza lascia trasparire anche una forte insensibilità e mancanza di empatia: i pesanti fardelli che essi non vogliono muovere neppure con un dito sono invece imposti senza alcun ripensamento sulle spalle altrui. La motivazione profonda delle loro opere non è, dunque, la Legge ma l’autoreferenzialità, l’amore di sé che si esprime soprattutto nell’esibizionismo, nell’ambizione, nella ricerca di ammirazione. “Ma voi” introduce la parte successiva del discorso rivolto alla folla e ai discepoli. La congiunzione avversativa esprime un cambio di registro: non si tratta più di valutare dei comportamenti, bensì di ascoltare un insegnamento nuovo da mettere in pratica. È bene biasimare la condotta di scribi e farisei prima di tutto per non cadere nel loro stesso errore: anche il discepolo, infatti, è tentato di ambire alle cariche e assumere atteggiamenti di superiorità. Può farsi chiamare “maestro” o “padre” attribuendo a questi ruoli il diritto di prevalere sugli altri. A tale visione gerarchica della comunità Gesù ne contrappone un’altra del tutto diversa, che scardina le nostre ambizioni, rivalità, desiderio di primeggiare e ci colloca nella verità di noi stessi ricordandoci qual è la nostra reale identità. Noi tutti, infatti, abbiamo un unico Padre, quello celeste; da qui ha origine il nostro essere figli e, di conseguenza, fratelli. Questo è l’unico modo in cui siamo abilitati a pensarci da Colui che – solo – abbiamo il diritto di considerare come nostro Maestro e Guida. Nemico, superiore, rivale, avversario, inferiore sono tutti termini, insieme a molti altri, che siamo invitati a eliminare non solo dal nostro vocabolario ma soprattutto dal nostro sguardo, dalla nostra percezione dell’altro al quale è necessario, invece, riconoscere lo statuto di figlio del nostro stesso Padre e, di conseguenza, di nostro fratello. E dobbiamo iniziare noi a eliminare ogni senso di inferiorità o superiorità, ogni forma di rivalità nella speranza che la nostra conversione, unita alla preghiera, possa influire positivamente anche in quei luoghi in cui oggi la fraternità è maggiormente ferita.