XXXI domenica tempo ordinario Mt 23,1-12

XXXI. DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. ANNO a. Matteo 23,1-12.
 
 
XXXI. DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. ANNO a. Matteo 23,1-12.

Gesù e il comandamento dell’amore –

a cura di Mons. Alberto Albertazzi – alberipazzi@gmail.com –

Dopo più o meno stucchevoli interpellanze da parte dell’autorità giudaica, Gesù, spazientito, passa al contrattacco scaldando i muscoli verso una raffica di “guai” assestata ai suoi rompiscatole, purtroppo non letta nella liturgia domenicale. Il vangelo di questa domenica è la rampa di lancio verso quelle bordate, il cui bersaglio sono i soliti scribi e farisei, maestri di ipocrisia.

Questi personaggi siedono tronfi sulla “cattedra di Mosè”, il quale non la occupava più perché morto circa milleduecento anni prima. E per vero dire non vi sedette mai perché ai suoi tempi non c’era ancora. Questa cattedra era lo scranno d’onore nella sinagoga ove, in nome di Mosè, si accomodavano i maestri dell’epoca, ossia gli scribi, ad arzigogolarne la legge. Questi maestrucoli vengono impallinati da Gesù con una tremenda, miratissima, fucilata: «Praticate e osservate tutto ciò che dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno». Si tratta quindi di maestri soltanto verbali, non comportamentali, per i quali contano solo l’esteriorità e l’ammirazione da parte della gente. Scaraventavano sulle spalle dei malcapitati uditori metri cubi di leggi e leggine applicative, di loro invenzione, che non facevano altro che mettere in ridicolo la grandiosa serietà dei dieci comandamenti, tramandati da quel patriarca di correttezza religiosa che fu Mosè.

Gesù si diverte pure a irriderli nel dettaglio, tirando in ballo i “filatteri”, un marchingegno pseudo-religioso di cui quei signori si munivano in atto di preghiera: «Due piccoli astucci di pelle nera, che dagli Ebrei di sesso maschile venivano legati con lacci neri di cuoio al braccio sinistro (dalla parte del cuore) e sulla fronte. Si usavano nei giorni feriali per la preghiera del mattino. Contenevano strisce di pergamena sulle quali erano scritti quattro brani della torah (=legge di Mosè)» (J. HERIBAN, Dizionario terminologico-concettuale di scienze bibliche e ausiliarie, LAS, Roma 2005, p. 381). Questo strampalato strumento religioso serviva per dare esecuzione letterale a Esodo 13,9, secondo cui la legge di Dio doveva essere «segno sulla tua mano e memoriale fra i tuoi occhi». Non era il caso di giungere a estremi così cervellotici per eseguire una prescrizione da non prendersi grossolanamente alla lettera. Insomma gli scribi, per esternarsi fanaticamente rispettosi della legge, allargavano i loro filatteri decorandosi con queste pendule ridondanze, che a noi forse fanno venire in mente l’albero di natale. Gesù ci sghignazza sopra.

Così come denuncia la caccia ostinata da parte di scribi e farisei dei posti d’onore in banchetti e sinagoghe, come pure il loro crogiolarsi nella vanagloria sentendosi salutare «rabbì» (= mio maestro) dalla gente. Darsi delle arie è dunque usanza molto antica.

Questo termine (rabbì) a Gesù fa abbassare il tono. Se si è lasciato andare a devastante canzonatura, ora ritorna il Maestro insuperato e originalissimo, dalle dichiarazioni più spiazzanti e sorprendenti. Osa dunque rivendicare con pieno diritto per sé il titolo di Maestro, dicendo che il maestro è uno solo, come una sola è la guida, il Cristo. Scomoda quest’ultimo titolo, ultrablasonato nel magistero profetico e nelle aspettative anticotestamentarie. Non dice a tutte lettere che il Cristo è lui, ma lo lascia facilmente intuire.

Questa unicità professionale ne sprizza un’altra, insieme affettuosa e solenne, la paternità: «Non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste». La paternità divina era già nota nell’Antico Testamento, talora con sfumature un po’ sussiegose, peraltro ammainate da Gesù che nel Padrenostro ha fornito la parola d’ordine del cristiano. È una paternità che si invera soprattutto quando suggerita dallo Spirito Santo, come da garanzie paoline (Rom 8,15; Gal 4,6) che ci autorizzano a gridare – addirittura! – «Abba! Padre!». Il teorema della suprema paternità divina lo leggiamo nella lettera di Paolo agli Efesini (3,15): «Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ha origine ogni discendenza in cielo e sulla terra». Così, correttamente, la traduzione Cei 2008. Mentre la traduzione Cei 1974 recitava «… dal quale [Dio] ogni paternità in cielo e in terra prende nome». Traduzione, linguisticamente meno corretta, che ha tuttavia il pregio di far grandeggiare la paternità divina come analogato maggiore di ogni altra paternità, destinata sempre e comunque a rimanere in abissale subordine.