XXXII domenica del Tempo ordinario

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

È possibile individuare un sottile legame tra il Vangelo di domenica scorsa e quello odierno: là Gesù invitava ad aderire al comandamento dell’amore, declinato nella sua duplice dimensione di amore per Dio e per il prossimo. Oggi invita a guardarsi dagli scribi, a non comportarsi come loro che ostentano di fare lunghe preghiere mentre la loro religiosità è di fatto autoreferenziale e i loro comportamenti esibizionistici; essi, inoltre, mancano completamente di attenzione all’altro, soprattutto di chi è privo di ogni tutela e protezione. In particolare, il verbo “divorare”, riferito al loro comportamento rispetto alle case delle vedove, descrive questa totale mancanza d’amore per il debole, la cui proprietà non viene rispettata ma “ingurgitata”, proprio come aveva fatto Eva con il frutto proibito. In questa accurata descrizione degli atteggiamenti degli scribi Gesù si rivela un fine osservatore, che non si lascia ingannare dalle apparenze, non si ferma in superficie ma coglie le motivazioni profonde e nascoste dell’agire delle persone. Già nell’Antico Testamento Dio aveva detto a Samuele a proposito dell’unzione del re che egli, a differenza dell’uomo, non guarda alle apparenze ma al cuore (cf 1Sam 16,7). Lo stesso vale per Gesù che non si lascia impressionare dai ruoli, dai gesti ma è invece attento alle intenzioni, alle motivazioni più vere di ognuno. La seconda parte del Vangelo di oggi lo mostra con estrema chiarezza. Seduto di fronte al tesoro del tempio ancora una volta Gesù osserva; in questo caso non si tratta più del comportamento degli scribi, ma della folla che getta monete nel tesoro. Molti ricchi sembrano generosi e forse lo sono realmente, poiché versano nelle casse molto denaro. Ma la generosità non coincide con la radicalità, con quella disponibilità ad amare Dio con tutto se stessi di cui parlava il Vangelo di domenica scorsa. Ritroviamo lo stesso tema anche oggi a proposito della vedova che getta poche monete nel tesoro; ricompare, infatti, il termine “tutto”, qui ripetuto due volte, a indicare la misura dell’amore, una misura senza limiti poiché la donna, nonostante la sua condizione di povertà, non dona solo i pochi soldi che possiede ma, offrendo quanto le permette di sopravvivere, si priva dell’indispensabile per l’esistenza. Il superfluo, infatti, non cambia qualitativamente la vita di chi lo dona, il quale potrà concedersi qualche capriccio in meno ma continuerà a trovare la propria sicurezza nei suoi beni. Il gesto della donna ha, invece, caratteristiche del tutto diverse: essa, in quanto vedova e povera, vive già una situazione di estrema fragilità e tuttavia, attraverso l’offerta dei suoi pochi spiccioli, si rende ancora più debole, si pone in una situazione di totale impotenza. Il lettore che, basandosi sul senso comune, potrebbe considerare il suo gesto come incauto, avventato, è invitato dall’ammirazione manifestata da Gesù a coglierne il significato più vero. La differenza tra la vedova e gli altri, ricchi e scribi, non consiste nella sua maggiore generosità bensì in ciò che pone al centro della sua esistenza, in quanto costituisce il fondamento della sua vita. All’autoreferenzialità, all’egocentrismo degli scribi ella contrappone la totale fiducia in Dio nelle cui mani getta la sua vita nello stesso modo in cui aveva lanciato nel tesoro del tempio le poche monete necessarie alla sua sopravvivenza.